Congo Attualità n.227

INDICE

EDITORIALE: Beni, più di 250 persone assassinate in soli due mesi

  1. NORD KIVU

  2. Le Forze Democratiche Alleate (ADF)

  3. Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR)

  4. Il Movimento del 23 Marzo (M23)

  5. L’operazione “Goma, città senz’armi”

  6. Chiusura del campo degli sfollati di Kiwanja

  7. Ritardo nel pagamento dei militari

  8. MINERALI CLANDESTINI – PETIZIONE

1. NORD KIVU

 a. Le Forze Democratiche Alleate (ADF)

Il 14 novembre, nella notte, dei presunti ribelli ugandesi delle ADF hanno ucciso quattro persone a Butemba, una località situata sulla strada Beni-Mbau. Nel giro di due giorni, almeno 21 persone sono state giustiziate dalle ADF nello stesso settore di Beni-Mbau. Secondo la società civile locale, altre persone sono state ferite con machete.[1]

Il 14 novembre, il tribunale militare operativo con sede a Beni, nella provincia del Nord Kivu ha espresso la sua volontà di scavare in profondità per scoprire ciò che è alla radice dei massacri in corso in quella parte del Paese. È in questo contesto che, a Beni, si è aperto un secondo processo, oltre a quello relativo all’assassinio del defunto Colonnello Mamadou Ndala. Già sono arrivate le prime rivelazioni. Già accusato nel processo di Mamadou Ndala, il colonnello Birocho è stato nuovamente citato in questo secondo caso.

Uno degli istigatori degli ultimi massacri, fermato dalla popolazione nei campi di Muyangos, alla periferia della città di Beni, Kakule Makambo Richard ha confessato di essere uno dei membri del gruppo responsabile delle uccisioni commesse sul territorio di Beni. Makambo Richard, che si è rivelato essere un ex membro dell’APC, braccio armato del movimento RCD / KML di Mbusa Nyamwisi, ha affermato di appartenere a un gruppo di 150 soldati comandati da un certo Katembo Masumbuko e il cui capo è appunto il colonnello Birocho, membro delle FARDC. Egli ha affermato d’averlo visto, in foresta, con l’insegna di generale mentre sta pronunciando un discorso. Richard ha anche dichiarato di essere stato sequestrato dal gruppo e di essere poi riuscito a fuggire. Secondo lui, vari giovani congolesi appartengono al gruppo, mescolati con Ugandesi e Ruandesi. Per l’accusa, non vi è alcun dubbio che, nella regione, si stava preparando un nuovo movimento ribelle.[2]

Il 19 novembre, almeno dieci operatori economici e personalità politiche della città e del territorio di Beni, nel Nord Kivu, sono stati arrestati dall’Agenzia di intelligence nazionale (ANR). Tra di loro ci sarebbero la presidente della Federazione delle Imprese del Congo (FEC) di Beni, Gertrude Vihumbira, l’ex sindaco della città di Beni, Didier Paluku Kisaka, e altri cinque commercianti di Kasindi e Rwenzori. Tutti sono considerati prossimi al partito del Raggruppamento Congolese per la Democrazia / Kisangani Movimento di Liberazione (RCD-KML), che le autorità accusano di essere coinvolto nei recenti attacchi nella zona di Beni. Il presidente del partito, Mbusa Nyamwisi, smentisce ogni implicazione e protesta contro una politica del capro espiatorio. Da parte sua, l’Agenzia Nazionale di Informazione (ANR) non fa che confermare la presenza di funzionari provenienti da Kinshasa da una settimana, per svolgere un’inchiesta.

Secondo le ultime informazioni, la presidente della FEC, l’ex sindaco della città di Beni e altri due commercianti, Kazebere e Jeannine Mambura, sono già stati trasferiti a Kinshasa.

Gli operatori della FEC e della società civile che, in seguito a tali arresti, già si dicono in preda all’insicurezza, qualificano questa situazione come una “caccia all’uomo” consecutiva ad accuse infondate di complicità con i gruppi armati, tra cui le ADF, responsabili dell’insicurezza della regione. Tra gli operatori economici e i notabili di Beni, si osserva un clima di panico.[3]

Il 20 novembre, presunti ribelli ugandesi delle ADF hanno ucciso una cinquantina persone nei villaggi di Tepoimba e Vemba, a 10 km da Mavivi, nel raggruppamento di Batangi-Mbau. Secondo i sopravvissuti, i miliziani delle ADF sono arrivati nei villaggi locali intorno alle 13h00. Fingendosi soldati delle FARDC, hanno condiviso la birra con la popolazione locale. Approfittando della fiducia che si era installata, gli assalitori hanno improvvisamente attaccato gli abitanti del villaggio, uccidendone una cinquantina. Secondo i sopravvissuti, questi uomini erano vestiti in uniforme militare. Il massacro è durato più di 5 ore.[4]

Il 24 novembre, le Forze Armate della RDC (FARDC) hanno arrestato circa 34 uomini armati e 10 civili durante alcune operazioni di ricerca iniziate per scoprire gli autori dei massacri commessi sul territorio di Beni. L’esercito ha recuperato 24 armi da guerra. L’obiettivo di questa operazione militare di ricerca è di individuare gli autori dei massacri, al fine di portarli davanti alla giustizia. Le FARDC operano delle perquisizioni nelle località dove, secondo dei  testimoni, si è notato la presenza o il passaggio di presunti ribelli ugandesi ADF. Il portavoce militare della Monusco, il colonnello Felix Bass, ha dichiarato che le forze della Missione dell’Onu sono presenti sul posto per raccogliere informazioni e mettere a disposizione delle FARDC per un migliore coordinamento. La Monusco fornisce anche un supporto logistico alle operazioni condotte dalle FARDC a Beni.[5]

Il 24 novembre, il governo provinciale del Nord Kivu ha istituito il coprifuoco su tutto il territorio di Beni. Con questa misura, presa dopo una riunione straordinaria tenutasi a Goma, nessuna circolazione è consentita dalle 18h00 alle 6h00 del mattino. Questa decisione è stata presa per affrontare il problema dell’insicurezza sul territorio. Oltre al coprifuoco, il Consiglio del Governo provinciale ha vietato anche di esercitare attività agricole nelle zone in cui sono in corso operazioni militari. Per l’amministratore territoriale, Amisi Kalonda, queste misure del governo provinciale serviranno sicuramente per migliorare la situazione della sicurezza sul territorio Beni e per impedire l’approvvigionamento dei ribelli ugandesi delle ADF. Ha infatti precisato che i ribelli delle ADF vengono riforniti di notte da alcuni complici che usano la moto per accedere alla foresta in cui essi si trovano.[6]

Un rapporto redatto da dodici deputati della maggioranza e dell’opposizione che si sono recati sul posto verso la fine di ottobre, getta una nuova luce sugli avvenimenti delle ultime settimane, in particolare sui limiti dell’esercito congolese sul posto. Per cinque giorni, i dodici deputati hanno incontrato le autorità e la popolazione di Beni. Hanno incontrato anche i sopravvissuti e i testimoni degli attacchi à Eringeti, Ngadi e Oicha, tre località in cui, nel corso del mese di ottobre, hanno avuto luogo i massacri.

Secondo i deputati, è fallito il sistema di allarme. In diverse occasioni, la popolazione e i servizi di intelligence avevano segnalato l’imminenza di un attacco alle forze dell’ordine – per esempio, dopo aver visto circolare dei volantini – ma mai è stata presa una disposizione di prevenzione. Inoltre, la polizia e l’esercito sono intervenuti sempre in ritardo.

Più grave ancora, il rapporto cita diversi casi in cui certe persone, che dovevano coordinare la protezione della popolazione, non hanno fatto il loro lavoro. È stato, per esempio, il caso della località di Ngadi, a 7 km dal centro di Beni. Un maggiore, avvertito che era in corso un massacro, ha minacciato di “sparare contro qualsiasi militare della sua unità, che avesse osato intervenire”. È stato minacciato anche un colonnello che, il giorno successivo, voleva recarsi sul luogo del massacro. Quella notte, sono state uccise una trentina di persone. A Beni, un altro esempio riferisce di un comandante della polizia che avrebbe chiuso le linee dei due numeri verdi istituiti dalla Monusco e messi a disposizione della popolazione per avvisare la polizia in caso di attacco. Infine, a Eringeti, l’arrivo dei soccorsi per fermare il massacro in corso la notte del 17 ottobre, è stato ampiamente ritardato a causa di una disputa tra le due unità dell’esercito presenti sul posto.

Perché questi fallimenti? Non ci sarebbe forse un’implicazione di alcuni elementi dell’esercito o della polizia in questi massacri? Il rapporto dei deputati non risponde a questa domanda, ma chiede l’istituzione d’una commissione parlamentare d’inchiesta per identificare gli istigatori delle violenze. Il rapporto fa inoltre sua la richiesta della società civile di Beni sul trasferimento di funzionari e di militari operativi in questa zona da molto tempo. In particolare, il rapporto raccomanda “la permutazione” dei membri dell’esercito, della polizia, di altri servizi di sicurezza e delle loro rispettive catene di comando con altri provenienti da altre province al di fuori del Nord Kivu. Il rapporto è stato discusso all’Assemblea Nazionale e le raccomandazioni formulate da deputati dovrebbero essere adottate in plenaria per essere sottoposte al governo.[7]

Juvenal Munubo Mubi, un deputato dell’opposizione, originario del Nord Kivu, relatore della Sotto-Commissione delle forze armate all’Assemblea dei Deputati, ha dichiarato che «per il caso di Beni, occorrono più commissioni di inchiesta, non solo una. Occorre un’inchiesta parlamentare, come è stato richiesto da altri parlamentari, ma anche un’inchiesta interna alle FARDC. Inoltre, per maggiore credibilità, è necessaria anche un’inchiesta internazionale da parte delle Nazioni Unite. Anche la Corte Penale Internazionale (CPI) dovrebbe interessarsi di quello che sta succedendo a Beni, perché è una vera e propria carneficina quella che è in corso in quella parte del territorio».[8]

Il 1° dicembre, durante la notte, tre persone sono state uccise a colpi di machete e altre tre ferite in seguito ad una nuova incursione di presunti ribelli ugandesi delle ADF a Beni.

L’attacco è iniziato verso le 21h00 nei villaggi di Kasana, Mapiki, Abialos e Linzo-Sisene, nel settore di Beni-Mbau, a circa 54 km a nord della città di Beni. Gli aggressori, armati di fucili e machete, hanno attaccato i civili nelle loro case. Due donne e un ragazzo di circa 12 anni sono stati uccisi. I tre feriti sono in cura presso il centro sanitario di Eringeti. Da parte sua, il portavoce delle operazioni Sokola ha assicurato che l’intervento delle FARDC è stato immediato, il che ha permesso, secondo lui, di circoscrivere l’attacco e di limitarne i danni. Ha anche assicurato che le FARDC stanno ancora rastrellando la zona per trovare gli assalitori.[9]

Le organizzazioni umanitarie che operano nel Nord Kivu, preoccupate per la situazione d’insicurezza che regna lungo la strada Mbau – Kamango, hanno identificato circa 88.500 sfollati in seguito ai massacri di popolazioni civili nel nord di Beni.[10]

Il 6 dicembre, di notte, una nuova strage di civili è stata perpetrata da uomini armati a Manzanzaba, Ahili e Mulobya, villaggi situati a circa 50 km a nord est della città di Beni. La società civile locale ha avanzato un bilancio provvisorio dei trentadue morti. Erano circa le 20h00, quando gli assalitori hanno fatto irruzione nei tre villaggi. Secondo fonti locali, arrivati a Manzanzaba, hanno attaccato gli abitanti, uccidendo diciassette persone, tra cui il capo del villaggio e 10 membri della sua famiglia. Questi ultimi sono stati bruciati vivi dagli aggressori che hanno incendiato la loro casa con benzina. Secondo le stesse fonti, questi uomini si sono poi diretti verso il vicino villaggio di Ahili, dove hanno ucciso tredici persone a colpi di machete. Hanno infine fatto irruzione nel villaggio di Mulobya, dove hanno ucciso altre due persone. Nel tardo pomeriggio, Jean-Baptiste Kamabu, capo della cittadina di Oicha, ha affermato che il bilancio è stato rivisto al rialzo, essendo i morti saliti a 36. Secondo la società civile del Nord Kivu, il bilancio delle vittime di questa serie di massacri commessi nel territorio di Beni e attribuiti alle ADF o alleati, sale a oltre 250 in soli due mesi. È dall’inizio delle stragi che la popolazione del territorio denuncia la passività delle autorità congolesi e dei caschi blu della Monusco. «Estremamente scioccata da questo ennesimo massacro», la società civile del Nord Kivu esorta, ancora una volta, l’esercito congolese e la Brigata d’Intervento della Monusco ad intervenire immediatamente. Secondo alcune fonti, le ADF sarebbero attualmente composte da circa 400 combattenti[11]

Il 7 dicembre, durante la notte, tredici persone sono state uccise e altre sette ferite all’arma bianca nei villaggi di Mulolya e Malibo, nel settore Beni Mbau, a circa 16 km da Beni. La popolazione è fuggita dai villaggi di Mamove, Malibo, Mulolya e Pwenti verso Maleki e Oicha.[12]

Secondo la coordinazione dell’Ong Convenzione per il Rispetto dei Diritti Umani, con sede a Oicha, gli autori ei massacri parlano in kiganda, una delle tante lingue parlate in Uganda, in swahili, in kinyarwanda e in lingala, una delle lingue più parlate nella RDC. Le varie testimonianze raccolte in loco indicano che, dietro tutti questi continui massacri commessi nella regione di Beni, ci sono dei ribelli ugandesi appoggiati da alcuni ribelli ruandesi e congolesi. Infine, la coordinazione dell’Ong Convenzione per il Rispetto dei Diritti Umani, ha affermato che ultimamente, in Uganda, si è svolta una riunione militare tra alcuni membri dell’ex ribellione M23 e alcuni ufficiali dell’esercito ugandese, per pianificare altri attacchi sul territorio congolese.[13]

Il 13 dicembre, le FARDC e la MONUSCO hanno lanciato una nuova fase dell’operazione Sokola contro le ADF. L’obiettivo è quello di neutralizzare completamente la ribellione. Essa è caratterizzata dall’entrata in gioco – a fianco delle forze militari della MONUSCO e delle FARDC – della Brigata di Intervento della Monusco, che aveva appoggiato l’operazione “Mela verde”, che ha portato alla neutralizzazione della ribellione del M23, ai primi di novembre 2013. Questa volta, la Brigata d’Intervento della MONUSCO sarà direttamente impegnata nei combattimenti. Questa nuova fase è stata lanciata a partire da Eringeti e Kokola, due località situate a circa 60 chilometri a nord-est della città di Beni. Le operazioni congiunte consistono nel rastrellamento del territorio e l’inseguimento delle ADF fino alle loro ultime basi. Esse saranno condotte sotto la supervisione del generale Muhindo Akili Mundosi delle FARDC e del generale Abdul Kimweri della Monusco.[14]

b. Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR)

Il 26 novembre, in mattinata, novanta ex combattenti e dipendenti delle Forze Democratiche per la Liberazione del Raanda (FDLR) stanziati a Kanyabayonga da quattro mesi hanno lasciato questa città del Nord Kivu per Kisangani, nella Provincia Orientale, dove saranno accolti in un centro di transito. Questi ex combattenti avevano finora rifiutato di essere trasferiti a Kisangani, condizionando qualsiasi loro trasferimento a un previo controllo del centro di transito in cui sarebbero stati accolti. Il gruppo è composto da 28 ex combattenti e da 62 loro familiari. Secondo fonti prossime alla Monusco, settantatre di loro sono stati trasportati a bordo di cinque veicoli della stessa Monusco. Diciassette, tra cui donne incinte, malati e bambini, hanno sono stati trasportati con un elicottero messo a disposizione dalla Monusco. Hanno lasciato Kanyabayonga verso le 10h00 del mattino e hanno trascorso la notte nella base DDRRR della Monusco, a Munigi.

Il capitano Hamuli Carrotte, uno responsabile congolese della sezione per il disarmo, smobilitazione e reintegrazione (DDR) a Kanyabayonga, ha affermato che si tratta di una prima ondata. Egli ritiene inoltre che la partenza degli ex FDLR per Kisangani potrà consentire ad altri ribelli ruandesi di continuare il processo di disarmo volontario prima del prossimo 2 gennaio, data in cui scade l’ultimatum loro dato dalla SADC e dalla CIRGL.[15]

Il 27 novembre, il primo gruppo di quarantacinque ex combattenti FDLR e i loro familiari provenienti dal Nord Kivu sono arrivati all’aeroporto di Kisangani verso le 11h35, a bordo di un aereo della Monusco. Un totale di quarantacinque persone: quindici ex combattenti, dieci donne e venti bambini. Poi a bordo di un minibus messo a loro disposizione dal governo provinciale sono stati trasportati al campo tenente generale Lucien Bahuma, loro sito di transito. Una seconda ondata dovrebbe arrivare nel pomeriggio.

Parlando ai media locali prima di lasciare Goma, il Maggiore Furaha Amos, uno dei capi delle FDLR che ha accompagnato il primo gruppo, ha espresso la sua soddisfazione per il supporto logistico e i dispositivi di sicurezza offerti dalla Monusco e ha fatto appello agli altri combattenti delle FDLR, che sono ancora riluttanti, a seguirli in questo processo di pacificazione della regione.
103 ex-combattenti delle FDLR-Foca e 209 loro familiari avevano accettato di impegnarsi in questo processo di disarmo volontario e, dal mese di maggio, erano stati raggruppati nel campo di transito di Kanyabayonga, in territorio Lubero.

Un altro primo convoglio di ex combattenti delle FDLR e di loro familiari ha lasciato il campo di transito di Walungu (Sud Kivu) per Kisangani, via l’aeroporto di Kavumu, nei pressi di Bukavu.
Per l’occasione, è stato istituito un dispositivo di sicurezza gestito dalle FARDC e dalla Monusco. Cinque veicoli della Monusco hanno assicurato il trasporto terrestre da Walungu a Kavumu. Un’ambulanza ha trasportato 5 donne incinte e alcuni malati. A Kavumu, sono stati imbarcati a bordo di un Boeing noleggiato dal governo congolese. Secondo un funzionario della sezione DDRRR della Monusco / Bukavu, lo stesso aereo effettuerà quattro rotazioni, una al giorno, per trasportare verso Kisangani gli ex combattenti delle FDLR e loro familiari, 308 persone in totale, accolti nel centro di transito di Walungu da cinque mesi e mezzo.[16]

Il 3 dicembre, il vice rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite responsabile delle operazioni nell’est della RDCongo, Wafy Abdallah, ha dichiarato che i campi di transito degli ex FDLR di Kanyabayonga (Nord Kivu) e di Walungu (Sud Kivu) sono per il momento vuoti.[17]

I 163 ex-combattenti che hanno deciso di deporre le armi sono ora, con le loro famiglie (125 donne e 399 bambini), nel campo di transito di Kisangani. 687 persone in tutto, molto poche rispetto ai 1.500 combattenti che, secondo le Nazioni Unite, sono ancora nascosti all’interno della foresta congolese. Da parte delle FDLR, si cerca di prendere tempo. In una lettera del 6 dicembre, il gruppo armato promette  che altri combattenti si consegneranno a partire dal 15 dicembre, ma a condizione che la sicurezza per il trasporto e nei campi di accoglienza sia garantita dalle forze della Monusco e dall’esercito congolese. In questa lettera, le FDLR si lamentano delle condizioni di vita nel campo di Kisangani. che considerano deplorevoli. Nei primi giorni, c’erano dei problemi per l’acqua, conferma la Monusco, ma sono già state prese le misure necessarie: la pompa dell’acqua è in funzione e una cisterna è già in costruzione. Secondo la Monusco, questi reclami sono un modo per prendere tempo, prima della fine del ultimatum del 2 gennaio intimato loro per deporre le armi.[18]

c. Il Movimento del 23 Marzo (M23)

Il governo ugandese ha intimato al governo congolese di rimpatriare gli ex ribelli del Movimento del 23 marzo (M23) che si trovano sul suo territorio entro il 12 dicembre. In caso contrario,  Kampala ha annunciato a Kinshasa che avrebbe concesso loro lo statuto di rifugiati politici e che, quindi, sarebbero liberi di spostarsi da un luogo ad un altro. Il 12 dicembre è la data del primo anniversario della firma delle dichiarazioni di Nairobi che prevedono, in particolare, l’amnistia e il rimpatrio delle truppe. L’Uganda ha infatti accusato il governo congolese di essere in ritardo nell’adempimento dei suoi impegni presi a Nairobi.

Da parte sua, il coordinatore congolese del meccanismo nazionale di monitoraggio dell’accordo quadro di Addis Abeba, Francois Muamba, ha qualificato tale accusa di pretesto che ha respinto al mittente, annunciando due missioni del governo di Kinshasa a Kampala e a Kigali “per chiarire la situazione”. Ha aggiunto che la delegazione discuterà anche del rimpatrio degli ex ribelli.

Nel contesto dell’accordo di Addis Abeba, firmato nel febbraio 2013, gli undici paesi firmatari dell’Africa centrale e orientale si erano impegnati a non sostenere i gruppi armati ancora attivi, in particolare nella RDCongo. François Mwamba ha pertanto ritenuto che il provvedimento annunciato dal governo ugandese costituisca una “violazione” degli impegni presi a Addis Abeba. Tuttavia, egli ha ammesso che il processo di amnistia e di rimpatrio a acculato del ritardo, ma ha denunciato il fatto che, nelle ultime riunioni del meccanismo di controllo, la delegazione del M23 era assente, avendo rifiutato di recarsi a Kinshasa. Da parte del M23, nessuna dichiarazione ufficiale prima dell’incontro con la delegazione governativa. Se gli ex ribelli dicono di essere a conoscenza dell’ultimatum, molti di loro hanno affermato di non aver ancora compilato alcun documento di richiesta dello statuto di rifugiati politici.

Le dichiarazioni di Nairobi prevedono anche il riconoscimento del M23 come partito politico e l’integrazione dei quadri politici del M23 nella vita politica del Paese. A questo proposito, Ntumba Luaba, Segretario Esecutivo della Conferenza Internazionale per la Regione dei Grandi Laghi (CIRGL), ha affermato che «l’unico modo per accedere al potere sono le elezioni, già previste nel 2016, ma ci sono state delle concertazioni (tra il Presidente Kabila e alcune forze politiche), … Spetta quindi al presidente Kabila decidere chi integrare nella squadra di governo di coesione nazionale che potrebbe creare in un prossimo futuro».[19]

Il 5 dicembre, il governo congolese ha inviato una delegazione a Kampala, la capitale ugandese, per organizzare il rimpatrio immediato di alcuni membri dell’ex M23. Il governo ugandese aveva dato alla RDCongo fino al 12 dicembre per rimpatriarli.

Per ora, Kinshasa si è detta pronta a rimpatriare i 330 ex ribelli già amnistiati, sui 1.678 identificati sul territorio ugandese e altri 229 ex-ribelli già amnistiati, sui circa 453 identificati sul suolo ruandese. Il governo congolese ha espresso la sua disponibilità a continuare il processo di amnistia per gli altri. Gli ex membri del M23 ne dubitano. Un responsabile dell’ex movimento ribelle ha infatti dichiarato: È passato quasi un anno da quando abbiamo firmato le dichiarazioni di Nairobi e il governo congolese ha chiaramente dimostrato la sua mala fede».[20]

Un anno dopo la firma delle Dichiarazioni di Nairobi da parte del M23 e del governo congolese, sono stati compiuti pochi progressi. Kinshasa e il M23 non sono riusciti ancora a sedersi intorno a un tavolo. Nei tre appuntamenti previsti per il 20 maggio, il 1° settembre e il 7 novembre, il M23 era assente. L’ex gruppo armato ha avanzato timori per la sicurezza. Secondo Kinshasa, si tratta di un capriccio del M23.. Alla fine, ogni parte accusa l’altra di malafede. «Finché non ci sarà alcun progresso nella lotta contro le FDLR, non ci sarà alcun progresso reale con il M23», afferma un esperto.

Secondo Kinshasa, ci sono stati dei ritardi, ma anche dei progressi. L’amnistia, per esempio. 559 ex ribelli ne hanno beneficiato. Sono quelli che non hanno commesso crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Il Governo promette che ce ne saranno altri nelle prossime settimane.

Ma per il M23, il processo è troppo lento e la maggior parte degli 11 impegni presi non sono stati mantenuti. Per esempio: il ritorno dei rifugiati e degli sfollati nelle loro zone di origine. Il Governo aveva promesso di accelerare l’operazione. Un anno dopo, è lo statu quo. Infatti, non è ancora rientrato alcun ex-combattente del M23 fuggito in Uganda o in Ruanda. Kinshasa ha di nuovo promesso di accelerare i tempi e di rimpatriare tutti quelli che sono stati amnistiati entro il 25 dicembre. Difficile immaginare che si possa terminare questa operazione in soli quindici giorni.
Nel frattempo, il governo ugandese, che aveva minacciato di concedere lo statuto di rifugiato politico a quelli che, il 12 dicembre, si trovassero ancora sul suo territorio, si è dimostrato più conciliante, assicurando che può aspettare e che non prenderebbe alcuna decisione che potrebbe mettere a repentaglio il processo di pace.[21]

d. L’operazione “Goma, città senz’armi”

Il 28 ottobre, il comandante dell’esercito nel Nord Kivu ha rilasciato una dichiarazione in cui ha presentato un programma per porre fine all’insicurezza nella città di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, e dichiararla “città senz’armi”. Secondo la dichiarazione, tutti i militari addetti alla scorta di ufficiali generali e superiori in mutazione, come pure tutti gli ufficiali privi di ruoli devono recarsi a Bweremana, a circa 50 km a sud-ovest di Goma, per essere identificati. Le scorte dei comandanti di settore, dei comandanti delle brigate, dei reggimenti e dei battaglioni devono raggiungere le loro rispettive unità. Qualsiasi persona civile o militare che abbia a sua disposizione un militare di guardia deve richiedere un documento di autorizzazione firmato dal comandante della regione militare, il generale Emmanuel Lombe. Coloro che possiedono illegalmente armi sono invitati a consegnarle alla polizia o alle forze armate.

Tuttavia, secondo la società civile del Nord Kivu, queste disposizioni non sono sufficienti. Le autorità locali dovrebbero essere coinvolte nell’identificazione delle persone residenti nelle loro entità amministrative, al fine di trovare infiltrati o recalcitranti. Secondo il presidente di questa struttura, Thomas Mwiti, si dovrebbe intraprendere anche un’azione forte contro gli agenti di polizia impegnati nelle pattuglie, perché spesso sono accusati di alimentare l’insicurezza urbana.[22]

Il 6 novembre, il comandante della regione militare del Nord Kivu, il generale Emmanuel Lombe, ha annunciato l’inizio della seconda fase dell’operazione “Città senz’armi” a Goma. I controlli eseguiti il giorno prima in due campi militari della città (Katindo e Munzenze) ha permesso di ricuperare un centinaio d’armi, leggere e pesanti, e delle munizioni. Secondo il portavoce delle FARDC nel Nord Kivu, il colonnello Olivier Hamuli,  sono state arrestate anche 500 persone circa: militari, agenti di polizia e civili sospettati di essere illegalmente in possesso d’armi. Inoltre, a tutti i militari feriti di guerra residenti al campo militare di Katindo è stato ordinato di lasciare questa caserma e di recarsi al campo militare di Rumangabo, a 50 km da Goma, nel territorio di Rutshuru.[23]

e. Chiusura del campo degli sfollati di Kiwanja

Il 27 ottobre, il presidente della società civile del Nord Kivu ha dichiarato che nei campi degli sfollati della provincia ci sono anche dei rifugiati ruandesi. Secondo Thomas D’Aquin Mwiti, la presenza dei rifugiati nei campi degli sfollati pone tre problemi: quello dello status giuridico di queste persone, quello dell’esistenza permanente di questi campi per gli sfollati e quello dell’insicurezza. Il presidente della società civile che ha affermato che «i campi per gli sfollati continuano ad esistere anche per la presenza dei rifugiati ruandesi e poco a poco diventano anche dei luoghi d’insicurezza. Infatti, in alcuni campi sono state trovate delle armi. È quindi importante chiarire l’identità e lo status di ogni persona presente nei campi degli sfollati».[24]

Il 2 dicembre, il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, in una missione di lavoro in territorio di Rutshuru, ha deciso di chiudere il campo degli sfollati di Kiwanja. Quasi 900 famiglie sfollate (circa 2.300 persone) vivono in questo campo, ma il Governatore ha intimato loro di lasciarlo entro le 5h00 del mattino del 5 dicembre. Julien Paluku ha promesso di mettere a loro disposizione dei veicoli, affinché possano ritornare ai loro villaggi di origine.

Egli ha affermato che questo campo profughi non ha più motivo di esistere, perché la guerra contro il M23 che aveva costretto le famiglie a fuggire dai loro luoghi di origine è finita. Il governatore del Nord Kivu ha aggiunto che la decisione di chiudere il campo è stata presa a causa dell’insicurezza che vi si è instaurata. «Abbiamo trovato in questo campo dieci armi. È questo è il motivo per cui non possiamo continuare a lasciare aperto questo campo perché, alla fine, diventerà un luogo in cui entrerà la criminalità», ha sottolineato Julien Paluku.

Secondo lui, è anche ora che gli sfollati ritornino alle loro rispettive comunità per riprendere una vita normale e continuare a lavorare come prima. «Non si può dipendere sempre da aiuti esterni, mentre Rutshuru è un territorio fertile e produttivo. È sufficiente che queste persone ritornino a casa e in tre mesi inizieranno a produrre», ha concluso il governatore.

Anche Edgard Paluku, portavoce del governatore, ha sottolineato che la decisione è stata presa per motivi di sicurezza, dopo che è stato accertato che nel campo in questione circolavano armi.

«I campi degli sfollati stanno diventando delle sacche di insicurezza e dei nascondigli di armi», ha insistito, indicando, inoltre, che il governo del Nord Kivu ha deciso di chiudere, a breve, anche “tutti gli altri campi (della provincia)”. Se si applicasse tale decisione, oltre 200.000 sfollati rimarrebbero sulla strada. Secondo l’Alto Commissario per i Rifugiati dell’Onu (UNHCR), a metà novembre, i 60 campi degli sfollati nel Nord Kivu, situati nel sud della provincia, accoglievano più di 210.000 persone, su un totale di più di 800.000 sfollati presenti nel Nord Kivu, di cui la stragrande maggioranza vive presso famiglie ospitanti.

Dalla caduta della ribellione del Movimento del 23 marzo (M23), sconfitto in novembre 2013, il governatore Paluku non ha mai nascosto il suo desiderio di chiudere i campi degli sfollati. La maggior parte degli sfollati di Kiwanja sono originari del territorio di Rutshuru e provenienti da una zona compresa in un raggio di 60 km intorno al campo e dove in un anno la vita sembra essere tornata alla normalità. Secondo un esperto di Nord Kivu, che ha chiesto l’anonimato, oggi in questo territorio non ci sono più tanti gruppi armati come prima, fatta eccezione della presenza di alcuni ribelli hutu ruandesi, che però sono isolati nel Parco Nazionale dei Virunga. Molte armi in circolazione, tuttavia, esistono ancora, contribuendo a un aumento del banditismo e della criminalità.[25]

f. Ritardo nel pagamento dei militari

A metà novembre, i militari di almeno cinque unità dell’esercito dispiegate a Beni, Rutshuru e Nyiragongo (Nord Kivu) non avevano ancora ricevuto gli stipendi degli ultimi due mesi.

Le unità interessate da questo ritardo sono i reggimenti 805, 809 e 1007 dispiegati a Beni, dove sono impegnati nell’operazione militare “Sokola” condotta contro i ribelli ugandesi delle ADF.
Anche a Rutshuru, il reggimento 301 non viene pagato da due mesi. L’unità 321 con sede nel territorio di Nyiragongo vicino a Goma, si trova nella stessa situazione.

Gli abitanti di questi territori ne sono preoccupati. Essi subiscono le conseguenze di questo ritardo nel pagamento dei militari, che ora vivono sulle spalle della popolazione. Le autorità locali temono che questa situazione potrebbe pregiudicare il morale delle truppe impegnate nei combattimenti. Gli ufficiali dell’esercito ammettono il ritardo, ma affermano che esso è causato dalle banche che non riescono a raggiungere i militari sul posto. Dal 2012, i militari, gli agenti di polizia e i funzionari dello Stato vengono pagati per via bancaria. Tra i rischi di questo nuovo sistema, ci sono le difficoltà, per le banche, di pagare i clienti che operano nelle zone più remote del paese.[26]

Il colonnello Olivier Hamuli, vice portavoce dell’esercito, cita in particolare la Biac e l’Ecobank.

Le due banche incriminate smentiscono di effettuare dei pagamenti nelle zone citate, Beni, Rutshuru e Nyiragongo. Secondo il colonnello Hamuli, Ecobank chiederebbe ai militari dispiegati in prima linea contro le ADF di recarsi in città per essere pagati. Il che, secondo il vice portavoce dell’esercito, non è realistico. In effetti, secondo il sistema di pagamento per via bancaria, le banche chiedono ai militari e ai funzionari di aprire un conto presso di loro e di presentare un documento d’identità per essere pagati. Secondo le condizioni di sicurezza, gli agenti bancari a volte accettano di recarsi presso i clienti e altre volte chiedono loro di recarsi presso una succursale, ma rifiutano categoricamente di consegnare il denaro a terzi. Secondo ufficiali dell’esercito, sono in corso delle discussioni per affrontare questa situazione.[27]

2. MINERALI CLANDESTINI – PETIZIONE

 

Campagna per la tracciabilitàwww.mineraliclandestini.org

                                                       www.facebook.com/mineraliclandestini

 PETIZIONE

Ai Parlamentari europei e ai membri della Commissione Europea

In riferimento al progetto di regolamento europeo per l’importazione responsabile di stagno, tantalio, tungsteno e oro ed i rispetti­vi minerali grezzi, provenienti da aree in conflitto o ad alto rischio, chiediamo:

  • di modificare il progetto di regolamento in modo da sostituire lo schema di auto-certificazione volontaria con un regime obbligatorio per le imprese, affinché rendano pubblicamente conto di ciò che hanno fatto cir­ca l’applicazione del dovere di diligenza alle loro catene di approvvigionamento, in conformità con la Guida OCSE;
  • di ampliare il campo d’applicazione delle imprese coperte dal progetto, finora limitato agli importatori, alle fonderie e alle raffinerie, per potervi includere le principali società che commercializzano in Europa il tantalio, lo stagno, il tungsteno e l’oro sotto forma di prodotti finiti.
  • di approvare e rendere operativo il regolamento nei tempi più rapidi possibili.

FIRMA LA PETIZIONE SU: http://www.change.org/p/minerali-clandestini

 

E diffondila ovunque. Grazie!

 

[1] Cf Radio Okapi, 15.11.’14

[2] Cf Célestin L./MMC/L.A. – Julienpaluku.com, 15.11.’14

[3] Cf Radio Okapi, 20.11.’14; RFI,21.11.’14

[4] Cf Radio Okapi, 22.11.’14

[5] Cf Radio Okapi, 25.11.’14

[6] Cf Radio Okapi, 25.11.’14

[7] Cf RFI, 26.11.’14; Testo integrale in francese: http://afrikarabia.com/wordpress/rdc-a-beni-des-parlementaires-denoncent-les-manquements-de-larmee/

[8] Cf RFI, 09.12.’14

[9] Cf Radio Okapi, 02.12.’14

[10] Cf Angelo Mobateli – Le Potentiel – Kinshasa – Africatime, 05.12.’14

[11] Cf Radio Okapi, 07.12.’14; AFP – Africatime, 07.12.’14

[12] Cf Radio Okapi, 08.12.’14

[13] Cf DW – World – Africatime, 09.12.’14

[14] Cf Radio Okapi, 13.12.’14

[15] Cf Radio Okapi, 26.11.’14

[16] Radio Okapi, 27.11.’14

[17] Cf Radio Okapi, 03.12.’14

[18] Cf RFI, 11.12.’14

[19] Cf Radio Okapi, 05.12.’14; RFI, 05.12.’14; VOA – Kampala, 06.12.’14 (via mediacongo.net)

[20] Cf RFI, 05.12.’14

[21] Cf RFI, 12.12.’14

[22] Cf Radio Okapi, 29.10.’14

[23] Cf Radio Okapi, 07.11.’14

[24] Cf Radio Okapi, 28.10.’14

[25] Cf Radio Okapi, 03.12.’14; AFP – Africatime, 04.12.’14

[26] Cf Radio Okapi, 12.11.’14

[27] Cf RFI, 14.11.’14