Basta un minimo di volontà

Congo Attualità n. 167 – Editoriale a cura della Rete Pace per il Congo

Finale senza sorpresa.

Goma, capoluogo del Nord Kivu, una provincia dell’Est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), è caduta nelle mani del gruppo terroristico chiamato Movimento del 23 Marzo (M23), con l’appoggio delle forze armate di due Paesi limitrofi, il Ruanda e l’Uganda.

È l’amaro epilogo di una serie di infiltrazioni, complicità e tradimenti interni ma anche e, soprattutto, di una politica internazionale schiava degli interessi economici di un sistema occidentale basato su un capitalismo selvaggio che, in profonda crisi, cerca di sopravvivere sui cadaveri di un popolo la cui terra è ricca di minerali indispensabili per la tecnica attuale.

La caduta di Goma non sorprende. Da sedici anni, dal 1996, quando iniziò la guerra dell’AFDL, il Kivu subisce un’ingerenza e un’influenza ruandese e ugandese così pesante da trasformarsi periodicamente in operazioni di aggressione e di invasione del territorio congolese. Il che ha provocato milioni di morti, di sfollati interni e di rifugiati all’estero, saccheggi, stupri,…

Come le tre scimmie.

Di fronte alle sofferenze del popolo congolese, la Comunità internazionale è rimasta costantemente indifferente e passiva, più preoccupata di finanziare la costruzione di confortevoli alberghi e sontuosi edifici a Kigali, in Ruanda, per ospitare gli uffici addetti all’esportazione dei minerali saccheggiati nel Kivu ed etichettati a Kigali come produzione propria. Kigali è diventata ormai la piattaforma di un commercio internazionale mafioso della cassiterite, del coltan e dell’oro estratti nel Kivu. L’occidente ha affidato a Kigali lo sporco lavoro di procurargli i minerali del Kivu al prezzo più basso possibile, evadendo il fisco congolese. È per questo che, pur essendo a conoscenza dei crimini commessi dall’attuale regime ruandese nell’est della RDCongo, l’occidente fa finta di non sapere, di non vedere e di non sentire.

È quanto è successo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Sostenendo di non essere in grado di presentare una prova chiara e formale dell’implicazione del Ruanda nel conflitto in corso nel Kivu, gli Stati Uniti hanno rifiutato di includere i nomi di ufficiali ruandesi sulla lista delle persone oggetto di sanzioni, come raccomandava il gruppo degli esperti della stessa Onu sulla RDCongo.

 

Nessuno dica: “Non sapevo”.

Eppure, il rapporto finale del gruppo degli esperti delle Nazioni Unite, approvato dal Consiglio di Sicurezza e pubblicato ufficialmente il 21 novembre, ha confermato le accuse relative al ruolo del Ruanda nel conflitto armato nella parte orientale della RDCongo: diretto appoggio militare ai ribelli dell’M23, agevolazione nel reclutamento di nuove leve, agevolazione di diserzioni dalle FARDC, fornitura di armi e munizioni, di informazioni e di consulenza politica. La catena di comando dell’M23 è ancora nelle mani di Bosco Ntaganda in stretta relazione con il ministro della Difesa ruandese, il generale James Kabarebe.

La comunità internazionale non può permettersi di mettere questo rapporto nell’ultimo cassetto della scrivania o gettarlo nel cestino, come ha fatto con i precedenti rapporti della stessa Onu e delle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, non può continuare ad agire come se questo rapporto non esistesse per poi dire: “non sapevo”. Ora sa che il tanto vantato sviluppo economico di Kigali, la Singapore africana, è fondato sul contrabbando dei minerali del Kivu al vergognoso prezzo di tante vittime congolesi innocenti.

 

Impegni urgenti.

La Comunità internazionale deve dunque urgentemente rivedere la sua politica nei confronti del Ruanda: non può accettare di collaborare con un regime assassino e criminale. Con l’apparizione, nel giugno scorso, della prima parte del rapporto, alcuni Paesi della Comunità Internazionale hanno preso alcune timide misure nei confronti del Ruanda. Ora, tuttavia, non ci si può più limitare ad azioni simboliche, isolate e non concertate: la situazione attuale richiede una maggiore fermezza nei confronti dei Paesi che contribuiscono all’instabilità nella RDCongo, in modo particolare il Ruanda.

Eurac, la rete europea di Associazioni per l’Africa centrale, chiede dunque all’Unione Europea, ai suoi Stati membri, alla Comunità internazionale intera, all’Onu e all’Unione Africana (UA) di:

►Condannare con forza l’appoggio del Ruanda e dell’Uganda all’M23 ed esigere da questi due Paesi di cessare ogni forma di sostegno alla ribellione e di condannarla;

►Bloccare gli aiuti europei al governo del Ruanda, conformemente all’accordo di Cotonou circa i criteri di rispetto dei diritti dell’uomo e della democrazia, condizioni necessarie per la concessione di aiuti ad un governo;

►Incitare gli Stati membri a cessare la cooperazione militare e a riprogrammare il loro aiuto al governo ruandese, a causa del suo appoggio a una rivolta in un paese vicino, la RDCongo;

►Chiedere al comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite di stabilire sanzioni mirate nei confronti degli alti ufficiali ruandesi (tra cui il generale James Kabarebe), ugandesi e congolesi, implicati nella destabilizzazione dell’Est della RDCongo e direttamente o indirettamente responsabili dei crimini commessi contro le popolazioni civili.

Altre organizzazioni della Società civile propongono sanzioni ancora più severe:

→Imporre al Ruanda un embargo sull’acquisto delle armi,

→Sospendere le importazioni di minerali esportati dal Ruanda.

→Annullare la nomina del Ruanda a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

La via di sanzioni severe è a costo zero e, probabilmente, più efficace di tante operazioni militari.

Basta un minimo di volontà.