COME ANNIENTARE GLI OBIETTIVI E LE STRATEGIE DI UN’OCCUPAZIONE.

Congo Attualità n. 152 – Editoriale a cura della Rete Pace per il Congo

 

Per un’ennesima volta, gli spari dei kalashnikov e i colpi dei cannoni costringono la popolazione del Nord Kivu, all’Est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo) a fuggire dalla violenza.

Fonti umanitarie riferiscono che in soli 10 giorni, dal 10 al 20 maggio, altre 40.000 persone hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro campi, per allontanarsi dalla zona dei combattimenti tra l’esercito regolare e le milizie del Movimento del 23 marzo (M23), un nuovo gruppo armato formato da militari disertori fedeli al generale Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte Penale Internazionale.

Secondo un rapporto interno della Monusco rivelato dalla BBC, un comunicato di HRW e le dichiarazioni del portavoce del governo congolese, alcuni miliziani del M23 che si sono arresi hanno dichiarato di essere di nazionalità ruandese e di essere stati reclutati in Ruanda e mandati poi nel Kivu a combattere tra le file del M23.

Come gli anteriori movimenti politico militari l’AFDL, il RCD e il CNDP, anche l’attuale M23 sembra dunque essere creato e appoggiato a partire dal vicino Ruanda.

L’obiettivo apparente di questi gruppi armati filo ruandesi è sempre lo stesso: il disarmo delle FDLR, presentate come un’organizzazione di genocidari, un gruppo terroristico, “forze negative” (come i miliziani ugandesi del LRA o delle ADF-Nalu o i vari gruppi armati Maï-Maï) e costante minaccia contro la sicurezza della Comunità Tutsi in RDCongo e del Ruanda, anche se è da molto tempo che non si hanno notizie di attacchi significativi delle FDLR contro il Ruanda.

L’obiettivo non rivelato ma vero è l’egemonia militare, politica ed economica sul Kivu, in vista del controllo del lucroso commercio dei minerali della provincia (cassiterite, oro, coltan, petrolio). Le operazioni militari contro le cosiddette “forze negative” (FDLR in particolare) non sono che semplici pretesti per nascondere un piano ben preciso di occupazione del Kivu da parte del regime ruandese.

Anche la strategia rimane la stessa: l’infiltrazione nell’esercito e nelle istituzioni politiche e amministrative.

Fonti locali assicurano che nelle truppe dell’esercito nazionale dispiegate nel Kivu ci sono moltissimi militari ruandesi, anche se è difficile avanzare cifre anche solo approssimative e che sono loro ad occupare i principali posti di comando. Si tratta di militari ruandesi rimasti in Congo dopo le due guerre del 1996-1997 (ai tempi dell’AFDL) e del 1998-2003 (ai tempi del RCD) e che sono poi confluiti nelle milizie del CNDP di Laurent Nkunda (2005-2008). «L’integrazione» delle truppe del CNDP nell’esercito nazionale, in seguito agli accordi del 23 marzo 2009, è stata una delle ultime tappe dell’operazione di infiltrazione di militari ruandesi nell’esercito congolese. Ciò è stato possibile, perché l’operazione di “integrazione” delle truppe è stata molto rapida e confusa, realizzata con pochi mezzi tecnici a disposizione e, spesso, in forma collettiva, senza un controllo minuzioso dell’identità individuale.

A titolo di esempio, si possono ricordare due casi emblematici. Un generale dell’esercito ruandese (APR), James Kabarebe, comandava le truppe ruandesi che, nel 1996-1997, combattevano in Congo a fianco dell’AFDL bombardando i campi dei rifugiati hutu ruandesi. Dopo la presa di Kinshasa il 17 maggio 1997, lo stesso James Kabarebe fu nominato Capo di Stato Maggiore Generale dell’esercito congolese. Ritornato in patria nel 1998, fu quindi nominato Capo di Stato Maggiore dell’esercito ruandese e attualmente è Ministro della Difesa nel Governo di Paul Kagame. Benché Bosco Ntaganda sia di nazionalità ruandese, secondo il mandato di arresto emesso contro di lui dalla Corte Penale Internazionale, egli è stato nominato Generale dell’esercito congolese, ed è il personaggio più citato negli ultimi rapporti dell’Onu per la sua diretta implicazione nel contrabbando dei minerali tra il Kivu e il suo Paese, il Ruanda.

Un’altra operazione di infiltrazione è stata quella del rimpatrio di «rifugiati congolesi» dal Ruanda. Ma arrivati sul posto, non sanno riconoscere i loro campi, non ricordano più le strade e i sentieri, parlano kinyaruanda e inglese (lingue usate in Ruanda) e non il kiswahili o il francese (lingue usate nel Kivu insieme ad altri dialetti). I vicini di casa non ricordano di averli mai visti nel passato e i capi villaggio non sanno riconoscerli. Alcuni di loro, i più facoltosi, comprano terre e pascoli, altri comprano terreni edificabili e costruiscono. Tale infiltrazione è certamente stata facilitata dall’assenza di un’anagrafe nazionale congolese, in un Paese in cui gli abitanti non sono in possesso di una carta di identità, sostituita attualmente da un semplice certificato elettorale che serve anche come documento di identità.

Si creano gruppi armati e si fomentano guerre, affinché la popolazione autoctona abbandoni i propri villaggi e le proprie terre per lasciare il posto ad altre popolazioni provenienti da altri Paesi e dal Ruanda, in particolare.

Infiltrando l’esercito congolese e versando sempre più popolazione ruandese sul Kivu, il regime ruandese mantiene, in tal modo, il Kivu sotto la sua influenza militare e politica, in vista del proprio sviluppo economico.

Le conseguenze di questa logica sono da tutti conosciute: sei milioni di Congolesi uccisi, stupri di massa, massacri collettivi, oltre 1,5 milioni di sfollati nelle sole due province del Kivu, violazione della sovranità nazionale congolese e dell’integrità territoriale della RDCongo.

Ormai, l’opinione pubblica sta realizzando che la causa principale delle cicliche guerre e della persistente insicurezza nel Kivu si trova al di là della frontiera, in Ruanda.

Forse è arrivato il tempo in cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Comunità internazionale abbiano il coraggio di chiamare per nome quel “Paese vicino” che, da oltre quindici anni, fomenta ricorrenti pseudo ribellioni in territorio congolese e che, attualmente, sta offrendo un appoggio militare e logistico al M23 di Bosco Ntaganda.

Per questo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Comunità Internazionale dovrebbero:

Esercitare una forte pressione sull’attuale regime ruandese, affinché accetti la tenuta di un dialogo inter ruandese inclusivo (Governo, opposizione interna, opposizione esterna) che potrebbe contribuire ad una maggiore democratizzazione del Paese e ad un processo di riconciliazione nazionale più autentica. Le conclusioni di tale dialogo inter ruandese inclusivo potrebbe quindi facilitare il ritorno dei rifugiati ruandesi e della maggior parte dei membri delle FDLR ancora presenti in RDCongo.

Applicare al regime ruandese le sanzioni previste dal Consiglio di Sicurezza per i casi di violazione dell’embargo sulle armi a destinazione di gruppi armati operanti in RDCongo.

– Esigere dal Ruanda il ritiro immediato e senza condizioni di tutti i suoi connazionali che potrebbero dissimularsi all’interno del M23.

Sorvegliare con maggiore attenzione i circuiti ruandesi di esportazione dei minerali, nei quali sono immessi, senza previa certificazione di origine, anche prodotti minerari congolesi, soprattutto cassiterite e coltan, esportati posteriormente dal Ruanda come produzione ruandese. Se vuole investire nel settore minerario del Kivu, il Ruanda lo può fare attraverso accordi commerciali bilaterali con il governo di Kinshasa, nel rispetto delle norme commerciali internazionali, della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale del Congo.

Ridurre significativamente, o sospendere del tutto, qualsiasi contribuzione internazionale al bilancio dello Stato ruandese che ancora dipende, in gran parte, dall’aiuto esterno.

La pace nel Kivu dipende in gran parte da questo tipo di misure.