TRIBUNALI COMUNITARI SUL GENOCIDIO IN RWANDA: 2^ PARTE

Rapporto Human Rights Watch, 31 maggio 2011 (2ª Parte)

SOMMARIO:

V. CONCILIARE LE PRATICHE COMUNITARIE DI RISOLUZIONE DEI CONFLITTI CON LE NORME RICHIESTE PER PROCESSI EQUI
  
A. Limitazione dei diritti internazionali per un processo equo nei tribunali gacaca
          – Il diritto all’assistenza di un avvocato.
          – Il diritto alla presunzione di innocenza.
          – Il diritto ad essere informati sui capi d’accusa.
          – Il diritto a difendersi.
   B. Protezione contro la doppia incriminazione (bis in idem).
   C. Il diritto ad essere presente al proprio processo.
   D. Il diritto a non essere arrestati e detenuti arbitrariamente.
   E. Qualificazione, formazione, retribuzione e destituzione dei giudici.
   F. Onere della prova e norme probatorie.
   G. Determinazione delle pene e delle riparazioni.
        – La reclusione criminale a vita (ergastolo)
        – Lavori di interesse generale
        – Indennizzi

V. CONCILIARE LE PRATICHE COMUNITARIE DI RISOLUZIONE DEI CONFLITTI CON LE NORME RICHIESTE PER PROCESSI EQUI

Il governo ruandese ha scelto il sistema gacaca, perché avrebbe consentito di avere dei processi rapidi e informali. Tuttavia il governo ha dovuto far fronte al difficile compito di conciliare questo vantaggio con le norme più formali, indispensabili per un processo equo e sancite nella legge ruandese e nei trattati internazionali che il Ruanda ha sottoscritto. Il governo è arrivato a vari compromessi, soprattutto per quanto riguarda i diritti degli accusati, le qualifiche dei giudici e le norme giuridiche applicabili. Human Rights Watch ritiene, tuttavia, che questi compromessi non siano riusciti a proteggere sufficientemente i diritti delle parti e che siano sfociati, in molti casi, in processi ingiusti.

 

A. Limitazione dei diritti internazionali per un processo equo nei tribunali gacaca

La Costituzione ruandese, le leggi nazionali e i trattati internazionali, cui il Ruanda ha aderito, garantiscono determinati diritti fondamentali per un processo equo. Questi includono il diritto ad un avvocato, il diritto alla presunzione di innocenza, il diritto di essere informato delle accuse e di avere il tempo sufficiente per preparare la propria difesa, il diritto di essere presente al proprio processo e di confrontarsi con i testimoni, il diritto di non testimoniare contro se stessi, il diritto di non essere processato due volte per lo stesso reato e il diritto di non essere esposti ad arresti e detenzioni arbitrarie. Il governo ruandese ha cercato di garantire alcuni di questi diritti, ma ne ha modificati altri, come il diritto di avere il tempo necessario per preparare la propria difesa. Altri diritti, come il diritto ad un avvocato, sono stati completamente sacrificati per arrivare ad una risoluzione dei casi in tempi brevi e rapidi. Nel 2009, il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha affermato che il sistema gacaca non funzionava in conformità con le regole fondamentali richieste per un giusto processo.

Il Comitato ha manifestato particolari preoccupazioni a proposito della tutela dei diritti degli imputati e dell’imparzialità dei giudici. Nel corso della sua visita in Ruanda nel maggio 2007, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Louise Arbour, ha espresso la sua preoccupazione per il rispetto delle procedure, citando la “inquietante precipitazione” dei processi, la mancanza di formazione giuridica dei giudici gacaca e le pesanti pene imposte alle persone condannate. Il governo ruandese ha largamente ignorato queste critiche e, negli incontri con gli organismi finanziatori e con le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, ha più volte ripetuto che il rispetto dei suoi obblighi internazionali, in questo contesto, non era la sua prima priorità.

 

Il diritto a un avvocato

Sia la legge ruandese che il diritto internazionale garantiscono il diritto all’assistenza di un avvocato. I tribunali gacaca sono un’eccezione a questa regola, dal momento in cui, in qualsiasi fase della procedura, gli accusati non hanno mai accesso ad alcuna assistenza. Il diritto ad un avvocato non è espressamente limitato in nessuna delle leggi gacaca, ma il NSGC ha ripetutamente precisato che la presenza di un avvocato non era autorizzata. Il governo ha giustificato la sua decisione di escludere gli avvocati della difesa dai tribunali gacaca per tre ragioni. In primo luogo, l’elevato numero di persone accusate avrebbe reso impossibile che tutte avessero un avvocato e, qualora fosse stato possibile, ciò avrebbe prolungato in modo considerevole i processi. In secondo luogo, gli avvocati avrebbero potuto indebitamente influenzare i giudici gacaca non professionali, che hanno una comprensione limitata della legge. In terzo luogo, la partecipazione della comunità locale sarebbe stata sufficiente per garantire un giusto processo, perché i membri della comunità avrebbero potuto prendere la parola qualora un testimone avesse mentito o potuto interrogare i testimoni.

 

La presunzione di innocenza

La Costituzione ruandese, il codice ruandese di procedura penale, il PIDCP e la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (CADHP) cui il Ruanda ha aderito, garantiscono ad ogni persona accusata di essere ritenuta innocente fino a che non è dichiarata colpevole. Tuttavia, nei processi gacaca, questo fondamentale diritto non è sempre stato rispettato.

Importanti autorità del governo ruandese e mezzi di comunicazione filo-governativi hanno, in vari casi, ripetutamente e pubblicamente qualificato delle persone come colpevoli di reati connessi al genocidio, ancor prima della fine dei loro processi presso i tribunali gacaca e, in alcuni casi, addirittura prima della formalizzazione dell’accusa davanti ai suddetti tribunali. Generalmente, ciò si è verificato nei confronti di politici dell’opposizione. Simili dichiarazioni hanno creato un clima in cui era difficile far sì che una persona fosse ritenuta innocente e giudicata unicamente sulla base delle prove presentate al processo.

Lo stesso vale per coloro che sono stati accusati di “settarismo” (più comunemente noto come “divisionismo”) e di “ideologia genocidaria”, concetti vagamente definiti dalla legge per vietare idee, dichiarazioni o comportamenti che potrebbero causare una certa animosità o violenza etnica. La campagna del governo, volta ad incitare la popolazione a denunciare le persone sospettate di questi crimini, ha messo maggiormente in discussione il principio della presunzione di innocenza nei confronti di persone che dovevano ancora essere processate.

Le autorità governative hanno utilizzato queste accuse – comprese quelle di “revisionismo”, “negazionismo” e “minimizzazione del genocidio”, tre reati vietati dalla Costituzione ruandese e da una legge del 2003 sul genocidio – come strumenti per soffocare il dibattito su questioni delicate, mettere a tacere le voci indipendenti e critiche e perseguire gli oppositori politici.

Le persone che hanno osato chiedere giustizia per le vittime dei crimini commessi dai militari del FPR nel 1994 o che hanno cercato, in occasione delle elezioni presidenziali del 2010, di opporsi al partito al governo, hanno dovuto far fronte a denunce pubbliche e, in alcuni casi, ad accuse penali formali. I funzionari governativi hanno pubblicamente accusato di “divisionismo” e di “ideologia genocidaria” degli oppositori politici, come Victoire Ingabire (Presidente del partito di opposizione FDU-INKINGI), Bernard Ntaganda (Presidente del partito di opposizione PS-Imberakuri) e Deogratias Mushayidi (aperto critico del governo). Tutti e tre sono stati formalmente accusati di questi crimini.

Le leggi sul “divisionismo” e sulla”ideologia genocidaria” hanno avuto un effetto negativo sul rispetto della presunzione di innocenza e sulla libertà di espressione.

Il diritto alla presunzione di innocenza significa anche che un tribunale non deve decidere in anticipo se l’accusato è colpevole o trattarlo come se fosse colpevole, qualunque sia la probabilità della condanna. Ma Human Rights Watch ha documentato decine di casi in cui i giudici hanno dimostrato di avere agito secondo nozioni preconcette di colpa o hanno trattato, sin dall’inizio del processo, la persona accusata come se fosse colpevole. Human Rights Watch ha anche osservato dei processi in cui i giudici hanno agito con parzialità nei confronti degli accusati e dei testimoni a difesa.

 

Il diritto ad essere informato dell’accusa e di avere il tempo per preparare la propria difesa

Secondo la Costituzione ruandese, il codice di procedura penale del Ruanda e il PIDCP, i diritti di un imputato ad un processo equo comprendono il diritto di essere informato delle accuse contro di lui e il diritto di avere un tempo sufficiente per preparare la propria difesa. Nei processi gacaca, questi diritti non sono sempre stati rispettati: molti imputati non hanno ricevuto nessun preavviso, richiesto dalla legge, sulle procedure giudiziarie iniziate contro di loro, non hanno nemmeno ricevuto informazioni sufficienti, prima del processo, sulle accuse portate contro di loro e non hanno avuto sufficiente tempo per preparare la loro difesa. Molti imputati sono venuti a conoscenza della vera natura delle accuse portate contro di loro solo il giorno stesso del loro processo.

Procedura di assegnazione

Per legge, il tribunale gacaca deve consegnare una citazione formale a qualsiasi persona citata a comparire ad un processo. L’assegnazione dovrebbe contenere le seguenti informazioni: se la persona è convocata come imputato o testimone, il nome del carcere in cui è reclusa la persona o, in caso diverso, il suo indirizzo, le accuse portate contro di lei, la categoria dei presunti crimini, la data, l’ora e il luogo dell’udienza. La citazione dovrebbe essere firmata dal segretario del gacaca e controfirmata dalla persona interessata nel momento in cui la riceve.

La citazione dovrebbe essere rilasciata direttamente alla persona accusata, o al suo attuale domicilio, o al suo ultimo luogo di residenza, almeno sette giorni prima della data prevista per la comparizione della persona davanti al tribunale gacaca. Se la persona ricevesse la citazione meno di sette giorni prima dell’udienza, il tribunale dovrebbe automaticamente rinviare l’udienza ed emettere una nuova citazione che rispetti il tempo prescritto.

Il mancato rispetto delle procedure per l’assegnazione

In alcuni casi, l’imputato non ha ricevuto la citazione secondo la procedura richiesta, per un semplice errore. A volte, le autorità locali o il tribunale gacaca non hanno consegnato la citazione direttamente all’imputato o al suo luogo di residenza, ma l’hanno data a dei parenti o amici, affinché la consegnino poi all’accusato. In altri casi, la mancanza di invio di una citazione può essere stata intenzionale, al fine di innescare un’accusa, dato che i tribunali sono tenuti a prendere una decisione anche in assenza dell’imputato, qualora non si presenti per tre volte consecutive.

Alcune persone accusate hanno ricevuto la notifica della seguente udienza gacaca attraverso messaggi di testo SMS, senza ricevere alcuna citazione scritta. Human Rights Watch ha documentato numerosi casi in cui sono state emesse citazioni meno di sette giorni prima dell’udienza, ciò che ha compromesso la possibilità per gli imputati di preparare la propria difesa. Nella maggior parte dei casi, le citazioni sono state rilasciate il giorno anteriore a quello in cui la persona doveva comparire davanti al tribunale gacaca. I prigionieri erano tra quelli che ricevevano la citazione in ritardo. In alcuni casi, i detenuti sono stati messi al corrente del loro processo solo la mattina della data prevista per la loro comparizione in tribunale. In un caso, un detenuto ha saputo per la prima volta che doveva comparire davanti a un tribunale gacaca, quando una guardia carceraria è venuto a prenderlo. Il prigioniero ha chiesto che l’udienza fosse rimandata, ma il giudice presidente ha rifiutato e il processo è continuato. Infine, egli è stato condannato al “carcere a vita”.

La mancanza di informazioni sulle accuse fornite

In molti casi, le citazioni non contenevano sufficienti informazioni sulle accuse portate contro l’imputato, come richiesto dalla legge. Nella maggior parte dei casi in cui Human Rights Watch ha rilevato delle irregolarità, lo spazio riservato alle “accuse” era semplicemente lasciata in bianco e gli imputati rimanevano all’oscuro delle accuse portate contro di loro. Quando i capi di accusa erano stati specificati, spesso si trattava di accuse generiche come “genocidio” o “assassinio”, senza alcun dettaglio circa fatti precisi o reati specifici. Informazioni così vaghe non hanno consentito all’imputato di preparare la propria difesa prima del processo. In alcune citazioni, mancavano altre informazioni importanti, come la categoria dei crimini di cui la persona era stata accusata e il luogo dell’udienza del tribunale gacaca. In molti casi particolarmente preoccupanti, delle persone sono state informate che dovevano presentarsi come “testimoni” nel processo di altre persone, ma al loro arrivo o nel corso dell’udienza hanno scoperto che esse stesse erano state rinviate a giudizio. Alcuni di questi casi evidenziano i rischi in cui i testimoni sono incorsi.

Se delle persone non avevano ricevuto sufficienti informazioni sulle accuse portate contro di loro o quando non sapevano se contro di loro fossero in corso delle procedure di accusa, a volte si sono rivolte al coordinatore del distretto, ai giudici gacaca o alle autorità locali per ottenere ulteriori informazioni. In alcuni casi, le autorità hanno prontamente fornito alle persone le informazioni richieste. In altri casi, le persone erano costrette a pagare per ottenere informazioni circa le accuse portate contro di loro, anche se il pagamento non era legalmente ammesso. In questi casi, il pagamento equivaleva a una bustarella in cambio delle informazioni richieste. Per esempio, in una regione nei pressi di Gitarama, una contadina ha venduto l’unica mucca che aveva per pagare alcuni giudici gacaca, affinché le dicessero se contro di lei erano state portate delle accuse di genocidio. Allo stesso modo, delle autorità gacaca hanno chiesto a uno studente universitario di Kigali un pagamento di 50.000 franchi rwandesi (circa 82 USD) per sapere se c’era una causa in corso contro di lui.

Rifiuto di rinviare delle udienze per dare all’accusato il tempo sufficiente per preparare la sua difesa

Human Rights Watch ha documentato numerosi casi in cui l’imputato ha chiesto una proroga dei tempi per ottenere dei documenti o per cercare dei testimoni a difesa. Alcuni tribunali gacaca hanno accordato più tempo, ma altri si sono rifiutati e hanno continuato il processo. In un certo numero di casi in appello, il condannato non ha nemmeno ricevuto una copia del verdetto del tribunale di prima istanza o non ha avuto tempo sufficiente per esaminarlo prima dell’udienza d’appello.

 

Il diritto di difendersi

Il fatto che molti imputati non vengano a conoscere le specifiche accuse portate contro di loro che il giorno stesso del processo impedisce loro di preparare la propria difesa e di trovare testimoni a difesa. Ciò è particolarmente preoccupante dato che, in Ruanda, la maggior parte delle procedure penali in materia di genocidio si basa quasi interamente sulle dichiarazioni di testimoni. La campagna del governo contro il “divisionismo” e la “ideologia genocidaria” si è rivelata come un grande ostacolo per ottenere delle testimonianze a favore della difesa presso i tribunali gacaca. Un certo numero di persone intervistate da Human Rights Watch ha espresso il timore di poter essere accusate di “ideologia del genocidio” e arrestate, qualora testimoniassero per la difesa degli imputati o se denunciassero le false testimonianze dei sopravvissuti. Dal momento in cui l’ideologia del genocidio è punibile con una pena che può arrivare fino a 25 anni di reclusione o con la detenzione a vita, per i recidivi e per quelli già condannati per genocidio, i rischi percepiti sono talmente alti da scoraggiare chiunque a presentarsi per la difesa di qualcuno. Autorità statali e membri di spicco della comunità hanno fatto talvolta ricorso all’intimidazione e hanno tentato di influenzare dei testimoni e le loro dichiarazioni, impedendo qualsiasi sforzo per ottenere dei testimoni a difesa. Human Rights Watch ha documentato una serie di casi in cui i tribunali hanno ostacolato il diritto di un imputato a presentare testimoni in sua difesa, rifiutando, in particolare, di ascoltare testimoni della difesa che erano fisicamente presenti o respingendo la richiesta degli accusati di citare potenziali testimoni della difesa. La notificazione tardiva della data del processo a molti prigionieri accusati ha seriamente compromesso la loro capacità di assicurare la presenza dei loro testimoni al processo.

 

Il diritto di testimoniare in propria difesa e il diritto di non testimoniare contro se stessi

Il PIDCP garantisce a un imputato il diritto di “non essere costretto a deporre contro se stesso o a confessarsi colpevole”. La legge del 2004 sui Gacaca omette di garantire questo diritto, dato che nel suo preambolo si afferma che tutti i Ruandesi hanno l’obbligo legale di testimoniare. L’articolo 29 aggiunge che: “Qualsiasi persona che omette o si rifiuta di testimoniare su quello che ha visto o su ciò che sa, come quella che fa una falsa denuncia, è perseguibile dal Tribunale Gacaca che ne ha fatto constatazione”. Le pene detentive vanno da tre a sei mesi, ma quelle per i recidivi sono più lunghe. Benché l’articolo 29 non menzioni esplicitamente gli obblighi degli imputati, di solito hanno dovuto testimoniare in propria difesa e il diritto di rimanere in silenzio durante il processo non è stato loro concesso. Richiedere all’accusato di testimoniare ha, di fatto, compromesso la presunzione di innocenza, facendolo ricadere sull’accusato il dovere di dimostrare che non ha commesso i crimini presunti.

Il governo ha attuato una serie di programmi che incitano coloro che sono accusati, in particolare i prigionieri, a confessare i crimini loro imputati. La legge sui gacaca offriva delle pene significativamente ridotte alle persone che confessavano: pene detentive più brevi, la possibilità di scontare una parte della pena carceraria sotto forma di Lavori di Interesse Generale (o “TIG”) e annullamento della pena. Se, all’inizio, un numero significativo di detenuti hanno confessato i loro crimini, nel 2002 solo un terzo di loro l’ha fatto. Tuttavia, questa percentuale è aumentata nel corso degli anni e, alla fine del 2004, oltre la metà della popolazione carceraria ha confessato. In molte parti del paese, infatti, con l’incoraggiamento del governo e delle autorità giudiziarie, le autorità carcerarie, avevano organizzato dei comitati per ascoltare le confessioni dei prigionieri, prima ancora che il processo di macaca cominciasse.

Hanno anche invitato i cristiani evangelici a fare proselitismo nelle carceri per cercare di convincere i prigionieri a confessare. Oltre alla prospettiva di una riduzione della pena, chi ha confessato ha potuto beneficiare di migliori condizioni di detenzione e della promessa di una liberazione anticipata. Per essere accettata, una confessione doveva includere i nomi delle vittime e dei complici e una descrizione dettagliata dei reati commessi. Il rifiuto di implicare per nome altre persone poteva essere un motivo per respingere la confessione. I vari benefici offerti ai prigionieri che confessavano hanno condotto a un’ondata di confessioni parziali e, addirittura, false. Alcuni prigionieri erano disposti a confessare dei crimini che non avevano commesso o dei reati minori invece di quelli commessi in realtà e a denunciare falsamente altre persone. Incoraggiare la confessione era un modo ovvio per ridurre i casi arretrati connessi al genocidio, ma le circostanze in cui molti prigionieri hanno confessato ha fatto sì che le informazioni fornite erano spesso inaffidabili.

Se un tribunale gacaca scopriva che qualcuno aveva fatto una confessione parziale o aveva confessato dei crimini che non aveva commesso, poteva imporre severe pene detentive ed escluderlo dalla partecipazione al programma di Lavoro di Interesse Generale (TIG). In effetti, un certo numero di prigionieri sono stati incarcerati di nuovo, perché le loro confessioni erano incomplete.

 

B. Protezione contro la doppia incriminazione (bis in idem)

La maggior parte dei sistemi giuridici accettano il principio generale secondo cui un imputato non può essere giudicato due volte per lo stesso reato (conosciuto come “bis in idem”), salvo che non appaiano nuove prove o che sia evidente che nel primo processo ci sia stato un errore giudiziario. La protezione contro la doppia incriminazione prevede la garanzia, per le persone accusate, che una volta giudicate, il caso sia ritenuto concluso. Le accuse legate al genocidio possono assumere molti aspetti, includendo potenzialmente una serie di singoli atti criminali che possono essere stati commessi in tempi diversi e in luoghi diversi. Ciò può rendere difficile distinguere chiaramente tra i casi di una violazione del principio del divieto di doppia incriminazione e i casi di una persona accusata per reati diversi e non correlati tra loro. Tuttavia, sia il ministro di giustizia che il segretario esecutivo del SNJG hanno riconosciuto che decine di persone portate a più riprese dinanzi a dei tribunali gacaca hanno subito una violazione del loro diritto alla protezione contro la doppia incriminazione.

Vuoto giuridico sulla doppia incriminazione

In teoria, i ricorsi in appello contro le sentenze dei tribunali ordinari dovrebbero essere esaminati nei tribunali ordinari di appello. Allo stesso modo, le decisioni dei tribunali gacaca dovrebbero essere trattate dai tribunali Gacaca d’appello. Tuttavia, la legge gacaca del 2004 ha previsto un’eccezione a questa regola e ha dato ai tribunali gacaca la facoltà di processare le persone per dei reati di cui erano già state processate in tribunali ordinari di prima e seconda istanza, indipendentemente dal fatto che fossero state condannate o assolte. Senza alcuna spiegazione, la legge dice semplicemente che qualsiasi disaccordo tra le sentenze dei due tribunali (ordinario e gacaca), relative ad un medesimo caso, dovrebbe essere risolto dal tribunale d’appello gacaca.

I giudici, oltre ad altri, hanno riconosciuto il rischio di una doppia incriminazione nel 2005, quando i tribunali gacaca hanno cominciato a condurre delle indagini e azioni penali contro delle persone già processate nei tribunali ordinari. Nel maggio 2008, il Parlamento ha modificato la legge per colmare il vuoto giuridico. Con la nuova legge, i casi giudicati dai tribunali gacaca non possono che essere oggetto di un ricorso davanti ai tribunali d’appello gacaca della corte stessa e i casi trattati dai tribunali ordinari o militari non possono che essere rivisti dalle loro rispettive corti d’appello. Tuttavia, la legge era mal redatta, lasciando ancora un vuoto giuridico. Casi giudicati da tribunali ordinari di primo grado che non sono stati oggetto di appello a livello superiore possono essere portati davanti a un tribunale gacaca, anche dopo che la data di scadenza per fare ricorso sia già scaduta a livello dei tribunali ordinari.

Casi di una violazione del principio della doppia incriminazione

Qualche volta, il NSGC ha ricordato ai giudici gacaca che non dovrebbero trattare i casi che erano già stati oggetto di un processo davanti ai tribunali regolari e che dovrebbero valutare se le accuse siano identiche in entrambi i casi, prima di decidere se o non trattare il caso. In un certo numero di casi, tuttavia, dei tribunali gacaca hanno respinto la tesi secondo cui non è possibile trattare i casi in cui gli imputati erano già stati processati per lo stesso reato. A questo proposito, Human Rights Watch ha documentato dei casi in cui gli imputati sono stati processati due volte in uno stesso tribunale gacaca o da un altro tribunale gacaca con accuse identiche. Di solito la seconda denuncia è stata presenta dopo che la persona accusatrice non era rimasta soddisfatta del primo verdetto. Violazioni del principio del divieto di doppia incriminazione si sono verificate anche in modi più sottili, nel tentativo di raggirare il divieto. In alcuni casi, gli accusati hanno dovuto affrontare accuse leggermente modificate o nuovi testimoni che non avevano testimoniato nel primo processo.

 

C. Il diritto ad essere presente al proprio processo

Il Ruanda autorizza dei processi per contumacia, cioè dei processi in cui l’imputato è assente. La giustificazione dei processi per contumacia è che gli individui non devono poter sottrarsi alla giustizia, se non si presentano al loro processo. Questa pratica è una procedura standard nei paesi di diritto civile ed è stata generalmente accettata come legittima secondo il diritto internazionale, a condizione che siano seguite alcune procedure. Il Comitato sui diritti dell’uomo delle Nazioni Unite ha insistito su due requisiti procedurali: in primo luogo, l’accusato deve essere debitamente informato del processo, e in secondo luogo, il tribunale deve necessariamente proteggere tutti i diritti degli imputati ad una procedura equa. Nel corso degli ultimi anni, i tribunali gacaca hanno perseguito centinaia, addirittura migliaia, di persone in loro assenza. Non necessariamente è stato fatto violando la legge. Ma dato che i tribunali gacaca spesso non riescono a proteggere certi diritti fondamentali, i processi in contumacia sono particolarmente problematici.

Processo in contumacia per motivi politici

In alcuni casi, a quanto pare politicamente motivati, delle persone hanno improvvisamente appreso che dei tribunali gacaca le avevano condannate in contumacia. Alcuni casi implicavano delle accuse che erano state presentate solo recentemente e che non erano state sollevate durante la fase nazionale della raccolta di informazioni (2002-2004). Altri casi sembrano essere stati fomentati da autorità giudiziarie ruandesi, per ottenere l’arresto di sospettati residenti all’estero. In alcuni casi, rancori privati hanno contribuito alla decisione di tenere processi in contumacia. Tuttavia, non tutti i processi gacaca in contumacia erano infondati o decisi per motivi politici o personali. In alcuni casi, l’imputato era fuggito dal paese o si era nascosto per sfuggire, probabilmente, alla giustizia. In altri casi, degli individui hanno scelto di non comparire, perché pensavano che non avrebbero avuto un processo equo, o perché temevano di essere processati due volte e accusati per motivi supplementari, soprattutto nel 2009, durante la nuova fase di raccolta delle informazioni. Nonostante ciò, le autorità hanno pubblicamente accusato di voler sottrarsi alla giustizia un gran numero di Ruandesi che forse avevano lasciato il paese per motivi legittimi. Tuttavia, non si può presumere, come ha fatto il governo ruandese, che la maggior parte di loro, o tutti, abbiano cercato di sfuggire alla giustizia, semplicemente perché hanno lasciato il Ruanda.

 

D. Il diritto a non essere arrestati e detenuti arbitrariamente.

Il diritto ruandese e il diritto internazionale garantiscono il diritto a non essere arrestati o detenuti arbitrariamente, ma negli anni successivi al genocidio, decine di migliaia di persone sono state arrestate sulla base di una sola accusa, non verificata, di partecipazione al genocidio e sono state detenute per lungo tempo (per anni, in molti casi), senza alcuna forma di procedura equa. Nel 1998, la popolazione carceraria era di circa 130.000 persone, detenute in pessime condizioni, tanto da mettere a rischio la loro vita. Oggi, la popolazione carceraria si è stabilizzata a poco più di 60.000 persone, che è ancora ben al di sopra della massima capacità delle carceri del paese. Circa due terzi della popolazione carceraria sono stati condannati per accuse relative al genocidio. Le condizioni carcerarie rimangono difficili. Nel febbraio del 2011, circa 130 persone si trovavano ancora in detenzione nell’attesa del loro processo per accuse connesse al genocidio, avendo alcuni di loro già trascorso molti anni in prigione. Gli arresti e le detenzioni arbitrarie sono rimaste ancora un problema in Ruanda. Human Rights Watch ha incontrato un certo numero di casi in cui la polizia ha arrestato delle persone senza alcun fondamento giuridico e le ha mantenute in detenzione per diversi giorni.

In alcuni casi, prima o dopo dei processi gacaca, la polizia ha arrestato delle persone accusate, senza averne ricevuto l’ordine da un tribunale competente. Human Rights Watch ha documentato anche alcuni casi in cui dei tribunali gacaca hanno ordinato la detenzione di persone accusate o di testimoni, senza prima accertare che la persona interessata avesse l’intenzione di fuggire o che potesse causare danni ad altri o a se stessa, nel caso in cui fosse rimasta in libertà. Human Rights Watch ha anche documentato diversi casi in cui degli individui sono stati mantenuti in detenzione, benché fossero stati assolti.

 

E. Qualificazione, formazione, retribuzione e destituzione dei giudici

Nell’ottobre 2001, la popolazione ha eletto circa 259 000 uomini e donne, non professionisti, come giudici gacaca per i casi genocidio. Al momento della loro elezione nell’ottobre 2001, molti giudici gacaca non avevano completato la scuola elementare, anche se coloro che sono stati posti a livello distrettuale e provinciale tendevano ad avere livelli più elevati di istruzione. Allo stesso modo, la maggioranza dei giudici a livello di cellula e di settore erano degli agricoltori, mentre un gran numero di giudici posti a livelli più elevati erano insegnanti o funzionari pubblici. Dato il basso livello di istruzione e di alfabetizzazione di molti giudici e tenuto conto delle complessità e ambiguità della legge gacaca, è difficile comprendere come la formazione ricevuta in seminari di pochi giorni abbia potuto essere sufficiente, per preparare i giudici a prendere delle decisioni così importanti, come quelle relative ai casi di genocidio.

Per legge, i giudici gacaca possono essere sostituiti se non partecipano regolarmente alle udienze senza un giustificato motivo, se sono riconosciuti colpevoli e condannati a una pena detentiva di sei mesi o più, se incitano al settarismo, se occupano ruoli politici o governativi o se commettono qualcosa in contrasto con il loro ruolo di persone integre. Da quando il sistema gacaca ha iniziato le sue attività, oltre 92 000 giudici (35% del totale) sono stati destituiti (e sostituiti) per il loro presunto coinvolgimento nel genocidio o per corruzione e inefficienza.

 

F. Onere della prova e norme probatorie

Onere della prova

Dal momento in cui i processi gacaca non prevedono la presenza di un procuratore, all’inizio di un processo i giudici presidenti annunciano le accuse portate contro l’imputato e danno una panoramica generale delle accuse. La parola è poi data agli accusati per fornire informazioni e presentare la propria difesa. Spesso, i giudici pongono ulteriori domande. Poi si chiamano i testimoni, dapprima quelli a favore dell’accusa, poi quelli a difesa dell’accusato, se ci sono. La parte civile, di solito la vittima o dei parenti della vittima, fanno una dichiarazione. Dopo l’ascolto dei testimoni, la procedura è aperta alla popolazione in generale, per fare altre dichiarazioni o porre delle domande a chi si è già espresso.

Anche se la legge richiede che un imputato sia presunto innocente, in pratica è l’accusato che deve dimostrare di non avere commesso il presunto crimine. L’assenza di un pubblico ministero rende ancora più pesante l’onere della prova per conto dell’accusato. Molti giudici hanno apertamente manifestato ostilità verso gli accusati, o fatto osservazioni denigratorie o interrotto le dichiarazioni dell’imputato. Quest’ultimo ha anche dovuto portare i suoi propri testimoni per difendersi dalle accuse. Se l’imputato non è stato in grado di trovare dei testimoni a difesa, generalmente è stato riconosciuto colpevole. Human Rights Watch ha documentato una serie di casi in cui i tribunali hanno condannato una persona, nonostante che nessun testimone avesse testimoniato contro di lei e che al processo fossero presenti solo dei testimoni a difesa.

Norme probatorie

Le leggi gacaca non hanno fornito indicazioni oggettive sul grado di importanza da dare alle testimonianze, al necessario livello di conferma per accertare i fatti e alla quantità di prove necessarie per giudicare colpevole una persona. Di conseguenza, i giudici hanno dovuto decidere da soli su tali questioni. L’unico requisito formulato dalla legge gacaca del 2004, era che “le sentenze devono essere motivate” e firmate da tutti i membri del tribunale gacaca. Le sentenze dei gacaca sono brevi sommari manoscritti (noti come “schede dei processi”) inseriti nel registro dei verbali di ogni giurisdizione e sono firmati dai giudici e dagli imputati. Molte sentenze non sono state motivate da alcun argomento sufficiente per spiegare quali prove erano state confermate o quali respinte, per poter arrivare alla decisione finale. In alcuni casi, negli atti delle sentenze mancavano addirittura le accuse che erano state confermate o respinte. Queste carenze hanno reso più difficile il processo d’appello, sia per gli accusati che per i giudici.

Due aspetti illustrano l’ampiezza dell’ambiguità delle decisioni dei tribunali gacaca: l’intenzione legale e la credibilità dei testimoni. Il requisito della “intenzione”, per la quale il giudice deve stabilire lo stato d’animo dell’accusato e concludere se l’accusato aveva o no l’intenzione di commettere il presunto crimine, si è naturalmente dimostrato uno dei concetti più difficili da maneggiare da parte dei giudici. Per condannare una persona per genocidio in virtù del diritto ruandese e internazionale, un tribunale deve constatare che quella persona aveva l’intenzione di “distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Se il tribunale non può dimostrare l’intenzione, dovrebbe assolvere l’accusato dal reato specifico di genocidio. In pratica, tuttavia, raramente i giudici hanno preso in considerazione la questione dell’intenzione e non l’hanno quasi mai inclusa negli argomenti delle decisioni. Il risultato è che molte persone sono state condannate per genocidio senza alcuna prova che dimostrasse che avevano intenzione di distruggere, in tutto o in parte, il gruppo etnico tutsi.

Questa questione si è rivelata particolarmente problematica, quando i giudici hanno dovuto affrontare la questione della responsabilità di complicità. Secondo le leggi sui gacaca, un complice è uno che “con tutti i mezzi, ha dato un aiuto indispensabile per commettere il reato” e che è punito allo stesso modo che il principale autore del delitto. Tuttavia, le leggi gacaca non dicono nulla sul fatto che, prima di poter essere qualificata come complice, una persona deve avere l’intenzione di aiutare qualcun altro a commettere un reato e lasciano la decisione alla discrezione dei giudici. Alcuni tribunali hanno dichiarato complici coloro che erano stati presenti alle barriere (posti di blocco) presso le quali si sono svolti posteriormente degli omicidi, o coloro che erano stati costretti a partecipare a delle ronde notturne per garantire la sicurezza nei loro quartieri. Solo in marzo del 2007, la segretaria esecutiva del NSGC ha finalmente detto pubblicamente che la presenza di una persona a una barriera non è di per sé sufficiente per accusarla di aver commesso un crimine. Nessuna altra linea guida è stata data sulla responsabilità di complicità.

Si è dato regolarmente credito e un peso significativo a delle testimonianze per sentito dire, senza intraprendere alcuna azione per convocare la persona che ha fatto la dichiarazione originale. Molte condanne sono state spesso fondate sulla base di dichiarazioni non verificate o incoerenti, rilasciate dai testimoni, fra cui alcuni non avevano alcuna conoscenza diretta degli avvenimenti in questione.

I tribunali hanno sempre accettato affermazioni per sentito dire, piuttosto che convocare la persona che ha fatto la dichiarazione originale o chiedere se quella persona poteva comparire come testimone. Anche se le prove per sentito dire sono spesso autorizzate in molti altri paesi, dai tribunali ordinari ruandesi e da molte giurisdizioni di diritto civile in Europa, i tribunali, però, riconoscono che questa è una forma secondaria di prova, la cui affidabilità deve essere verificata. Sembra che i tribunali gacaca non abbiano regolarmente fatto questa distinzione e abbiano invece dato spesso un peso significativo alle dichiarazioni per sentito dire. In altri casi, i tribunali hanno accettato delle prove scritte – di solito sotto forma di note manoscritte – come prove attendibili, senza alcuna seria discussione per sapere se la persona che aveva scritto la nota avesse potuto presentarsi in tribunale per testimoniare ed essere interrogata dai giudici e dagli accusati. I tribunali hanno omesso anche di verificare l’autenticità delle note manoscritte. In alcuni casi, i giudici hanno trovato difficoltà a valutare la qualità di una testimonianza. A volte non hanno identificato l’evidente parzialità da parte di testimoni contro di una delle parti implicate o hanno omesso di scavare più a fondo, quando sono emerse evidenti incongruenze in una deposizione di un testimone o tra diversi testimoni.

 

G. Determinazione delle pene e delle riparazioni

Per determinare le pene, i tribunali gacaca seguono delle linee guida che possono essere sommariamente riassunte come segue:

– Gli accusati della categoria 1 sono condannati a una pena obbligatoria di “reclusione criminale a vita” (ergastolo);

– Gli accusati della categoria 2 sono condannati a pene detentive che vanno dai cinque anni alla “reclusione criminale a vita” (ergastolo), secondo la natura del reato e se la persona ha avuto o no l’intenzione di uccidere;

– Gli accusati della categoria 3 sono condannati a pagare un’indennità corrispondente al danno causato.

Le persone che confessano beneficiano di una riduzione della pena. Quelli che confessano prima di essere accusati ricevono pene più lievi. Per legge, i condannati possono essere privati di alcuni diritti civili come il diritto di voto, il diritto di servire nelle forze armate o nel servizio pubblico e il diritto di esercitare la professione di insegnanti o medici. I minori di 14 anni al momento dei fatti non possono essere perseguiti, mentre i giovani tra i 14 e i 18 anni beneficiano di una riduzione della pena.

“La reclusione criminale a vita” (ergastolo)

Nel 2007, la pena di “reclusione criminale a vita” (ergastolo) ha sostituito la pena di morte ed è la pena obbligatoria per tutti gli accusati della prima categoria che non confessano o che non si dichiarano colpevoli per i loro crimini. Nel sistema gacaca, l’applicazione obbligatoria della pena di “reclusione criminale a vita” è stata spesso problematica, perché a volte è stata inflitta in seguito a una procedura difettosa, o da giudici non professionali e in circostanze in cui i diritti degli imputati a un giusto processo non sono stati rispettati. In alcuni casi, questo ha fatto sì che la pena più severa sia stata inflitta dopo processi sommari che, in alcuni casi, non hanno durato più di un’ora.

Lavori di interesse generale

Parallelamente alla creazione dei tribunali gacaca, per i casi di genocidio o connessi al genocidio, il governo ha introdotto un’alternativa al carcere: i Lavori di Interesse Generale (TIG). La pena alternativa offre tre principali vantaggi. In primo luogo, i lavori di interesse generale potrebbero alleggerire il sovraffollamento carcerario. In secondo luogo, potrebbero contribuire a reinserire i condannati nelle loro comunità locali. In terzo luogo, essi costituirebbero un modo, per gli accusati indigenti, di riparare i danni causati alla società e contribuire allo sviluppo nazionale. Il programma dei lavori di interesse generale, conosciuti con l’acronimo “TIG”, è diventato operativo nel 2005 e ha permesso agli accusati della seconda categoria che hanno confessato i loro crimini (e le cui confessioni sono state accettate come complete e veridiche) di scontare la prima parte della loro pena in carcere e la seconda parte nei lavori di interesse generale. In origine, il programma era consensuale: i prigionieri potevano decidere di scontare la totalità della pena in prigione o di commutarne la metà in lavori di interesse generale. Successivamente, il governo ha soppresso il requisito del consenso del detenuto e il programma è diventato obbligatorio per ogni persona che ne adempie le condizioni. Nel 2008, il Parlamento ha modificato la legge gacaca per esigere che le persone condannate al carcere e ai lavori di interesse generale scontassero dapprima la parte della pena consistente nei lavori di interesse generale, con la possibilità della sospensione del resto della pena, se la persona completasse in maniera soddisfacente il programma dei TIG.

La legge ruandese prevede due tipi di lavori di interesse generale: possono essere effettuati sia nella comunità locale dell’imputato o in un campo speciale per i TIG. Negli ultimi anni, il governo ha dato priorità ai campi. Le persone che svolgono i lavori di interesse generale nelle loro comunità d’origine vivono con le loro famiglie ed eseguono dei lavori tre giorni la settimana. Di solito, si tratta di costruire e riparare strade, scuole e case per i sopravvissuti del genocidio. Gli accusati passano spesso il resto della settimana a coltivare i propri campi o a fare un lavoro retribuito. Invece, coloro che vivono nei campi TIG lavorano sei giorni la settimana, ma scontano la loro pena in metà tempo: per esempio, una persona condannata a otto anni di lavori di interesse generale può terminare la sua pena in soli quattro anni in un campo TIG. In entrambi i casi, i progetti implicano un lavoro manuale intenso per molte ore al giorno e possono essere estremamente impegnativi fisicamente.

Molti condannati per genocidio, d’altra parte, hanno dichiarato a Human Rights Watch di considerare il programma dei lavori di interesse generale come forma di lavoro forzato e di sentirsi sfruttati dal governo. Altri hanno deplorato le condizioni in cui sono costretti a vivere nei campi TIG e, in particolare, di non ricevere sufficiente cibo, anche quando devono sostenere molte ore di lavoro manuale. A metà del 2009, più di 90 000 persone erano state condannate ai TIG. Alla fine del 2010, circa 26 000 persone avevano completato il periodo dei TIG e oltre 19 000 stavano ancora scontando la pena. Più di 27 000 non avevano ancora iniziato il programma, a causa della mancanza di finanziamento. Alla domanda se il programma dei TIG raggiungerà i suoi obiettivi, resta ancora da vedere. Ha certamente ridotto la popolazione carceraria e ha contribuito alla ricostruzione materiale del paese. I risultati circa la reintegrazione dei tigisti nelle loro comunità locali è più discutibile, soprattutto per quelli dei campi TIG, che vivono lontano dalla loro comunità d’origine e hanno scarsissime possibilità di interagire con il mondo esterno.

Indennizzi

L’indennizzo alle vittime è stato oggetto di controversia sin dall’inizio. Coloro che sono accusati di crimini della terza categoria, definiti come crimini contro la proprietà (distruzioni e saccheggi), sono stati condannati a risarcire le loro vittime per i danni causati. Tuttavia, le leggi gacaca non hanno mai previsto alcun tipo di indennità diretta per le vittime da parte degli accusati di prima e seconda categoria. Nel 1998, con un finanziamento del governo, è stato creato un fondo per l’assistenza ai sopravvissuti del genocidio (Farg). Il principio di partenza del Farg era semplice: fornire un’assistenza economica ai sopravvissuti del genocidio nella forma di borse di studio, assistenza medica, costruzione di case e sostegno alle attività generatrici di reddito. Ma nel corso degli anni, ha incontrato varie difficoltà, soprattutto a causa di accuse di corruzione, cattiva gestione finanziaria e infima qualità nella costruzione di alloggi per i sopravvissuti del genocidio.

Il fondo per i sopravvissuti del genocidio ha avuto dei risultati mediocri. Per molti sopravvissuti, la contribuzione all’assistenza sanitaria e scolastica e alla costruzione di case si è rivelata preziosa. Tuttavia, il Farg si caratterizza per una definizione molto ristretta di chi può essere considerato come “sopravvissuto”. Esclude le donne tutsi che, prima del genocidio, erano sposate con degli hutu, i figli di questi matrimoni e le vedove hutu che hanno perso i loro mariti tutsi durante il genocidio. Gli uomini Hutu, le loro mogli e i loro figli che sono stati feriti o uccisi non possono usufruire dello status di sopravvissuti, anche se sono stati uccisi cercando di proteggere i Tutsi.

Allo stesso modo, Ibuka, la principale organizzazione dei sopravvissuti al genocidio, non fornisce alcun aiuto né alle donne tutsi sposate con degli Hutu, né agli Hutu. Una donna Tutsi ha detto: “Ibuka non mi aiuta perché i miei figli sono hutu. Non vogliono rilasciarmi il certificato di superstite, perché ero sposata con un hutu. Ora sono malata di HIV a seguito di uno stupro durante il genocidio, e non ho i soldi per continuare a ottenere le medicine. I miei figli pensano che ciò non sia giusto. Loro padre è stato ucciso a causa della loro madre, eppure non sono considerati vittime del genocidio”.