Insicurezza, mafia e «minerali di sangue»

Congo Attualità n. 143 – Editoriale a cura della Rete Pace per il Congo

In questi ultimi mesi, i gruppi armati nazionali e stranieri ancora presenti nel Kivu, all’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo) hanno ripreso e intensificato la loro attività bellica.

La popolazione locale continua a vivere in una situazione di grande insicurezza: attacchi ai villaggi, furti, stupri, sequestri, massacri e arresti arbitrari sono ancora all’ordine del giorno, tanto è vero che l’esercito e la Missione dell’Onu in RDCongo (Monusco) hanno ultimamente intrapreso nuove operazioni militari contro questi gruppi armati, “Pace perfetta” nel Sud Kivu e “Colpo di fulmine” nel Nord Kivu.

Altre operazioni similari erano state intraprese nel passato (Umoja wetu, Kimia II, Amani leo), ma tutte con esito negativo. Bisognerebbe capire il perché. Si è constatato che un approccio prevalentemente militare è nettamente insufficiente e, anzi, provoca danni collaterali intollerabili.

Alla base del conflitto c’è, infatti, una rete mafiosa che gravita intorno al commercio illegale dei minerali. Essa è composta di capi dei gruppi armati, ufficiali dell’esercito regolare, agenti dei servizi di sicurezza e dell’amministrazione, politici, intermediari, commercianti e agenti di società minerarie. Tale rete mafiosa non agisce solo localmente, ma ha ramificazioni a livello internazionale, soprattutto nei paesi limitrofi, come Ruanda, Uganda, Burundi, Tanzania, Kenia.

Il commercio clandestino e illegale dei minerali del Kivu è diventato fonte di finanziamento di gruppi armati, mezzo di arricchimento illecito da parte di certe autorità militari e politiche e uno strumento di egemonia e di occupazione del territorio congolese da parte di Paesi terzi.

In nome dei propri interessi, non si esita a stringere alleanze contro natura. Si assiste ad una complicità fra gruppi armati supposti avversari, tra esercito regolare e gruppi armati, tra capi di gruppi armati e commercianti, tra ufficiali dell’esercito e uomini d’affari.

Ciò che rende difficile lo smantellamento di questa rete mafiosa è la presenza, al suo interno, di importanti ufficiali dell’esercito. I Rapporti di varie organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani e del gruppo degli esperti dell’Onu per la Rdcongo ne citano anche i nomi, tra i quali il più ricorrente è quello di Bosco Ntaganda, vice comandante dell’operazione Amani Leo nel Nord Kivu, nonostante sia oggetto di un mandato di cattura emesso nel 2006 dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Il problema è che, nel Kivu, l’esercito è formato prevalentemente da militari provenienti dal RCD e dal CNDP, due ex movimenti politico militari creati e appoggiati dal vicino Ruanda. Inoltre, il comando delle truppe rimane ancora nelle mani di ufficiali provenienti proprio da questi due movimenti, a scapito di altre componenti che si sentono emarginate e frustrate. Anche il capo di stato maggiore delle forze terrestri a Kinshasa, il generale Gabriel Amisi Kumba, proviene dalle loro file.

In questo contesto, il problema dell’insicurezza all’est del Paese va affrontato nella prospettiva della riforma del settore minerario, dell’esercito, dei servizi di sicurezza e della giustizia, senza dimenticare i rapporti internazionali.

A livello della riforma del settore minerario, il problema è quello della tracciabilità dei minerali. In questo senso, la “certificazione di origine” dei minerali, con relativa etichettatura previa all’esportazione, si avvera un passo indispensabile.

La riforma dell’esercito non riguarda solo la formazione, l’equipaggiamento e lo stipendio dei militari, ma anche la logistica e le nomine ai posti di comando. Essendo troppo implicate nel commercio illegale dei minerali, la riforma dovrebbe procedere alla mutazione di tali truppe in altre province del Paese e alla nomina di altre personalità ai posti di comando. Già si è fatto un tentativo di mutazione. Ma invano. Le attuali autorità militari giustificano la loro permanenza nel Kivu per combattere le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR). Ma intanto collaborano con loro nello sfruttamento illegale dei minerali e non hanno nessuna intenzione di sconfiggerle, perché sanno che una volta che le abbiano neutralizzate, non avranno più alcun motivo per restare. Dietro motivazioni di tipo ufficiale che, in realtà sono dei veri pretesti, esse hanno fatto sapere che non sono disposte a rinunciare ai lauti profitti derivanti dal commercio dei minerali. Questo tipo di riforma si rivela molto difficile da realizzare, perché i militari non solo hanno le armi in mano, ma hanno anche l’appoggio del regime ruandese che si serve di loro come forza di occupazione del Kivu. Gran parte dei minerali del Kivu transita, infatti, per il Ruanda, costituendo così una fonte di arricchimento per i dignitari del regime ruandese.

Anche il sistema giudiziario dovrebbe essere forte e indipendente, per potere processare le persone e le società implicate nel commercio illegale delle risorse naturali o responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità. Recentemente, la CPI ha rinnovato al governo congolese la richiesta di arrestare e consegnarle Bosco Ntaganda. Ma il governo ha risposto che non può consegnarglielo, perché “ha svolto un ruolo molto importante nel portare la pace”. In realtà, non è da escludere che, consapevole della fragilità del suo esercito, il governo tema la nascita di un’ennesima ribellione all’est, fomentata dal regime ruandese come le precedenti (AFDL, RCD E CNDP). Si sa che Ntaganda è solo una pedina al servizio di Paul Kagame, attuale presidente del Ruanda. Se la Corte Penale Internazionale vuole mettere le mani su Ntaganda, non le resta che emettere un mandato di arresto internazionale contro lo stesso Paul Kagame. Non sarebbe affatto difficile trovarne i capi di accusa!

Basterebbe prendere in considerazione il Rapporto Mapping sui crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in RDCongo dal 1993 al 2003, pubblicato dalla Commissione dell’Onu per i diritti umani. E se non lo potesse fare a causa dell’immunità presidenziale di cui Kagame gode, l’Onu, l’Unione Africana, l’Unione Europea e tutta la Comunità Internazionale hanno il dovere di esercitare ogni forma di pressione su di lui, affinché lasci il potere!