INDICE
1. I CONFLITTI NEL KIVU (RDC): UNA CRISI A SEI DIMENSIONI
a. Demografia e politicizzazione della questione identitaria
b. La terra: una fonte di conflitto?
c. L’attività mineraria: un’equazione tra economia, insicurezza e rivalità regionali
d. La questione delle FDLR: una fonte importante di tensioni sul piano della sicurezza e della diplomazia
e. Mancanza di governabilità e fallimento dello Stato: un terreno fertile per le violenze
f. Narrazioni storiche e manipolazioni della memoria: un conflitto alimentato dal passato
2. LA (NUOVA) OFFENSIVA DELL’M23 SU GOMA
a. Qual è la portata dell’espansione territoriale dell’M23?
b. Perché l’M23 ha ripreso le armi?
c. Il governo congolese: come ha affrontato il ritorno dell’M23 alle armi?
d. Qual è il legame con la politica nazionale?
e. Anche il Ruanda è implicato nella guerra dell’M23?
f. Perché il Ruanda è intervenuto e continua a farlo?
g. Qual è il ruolo dei minerali?
1. I CONFLITTI NEL KIVU (RDC): UNA CRISI A SEI DIMENSIONI
Patient Ligodi – RFI, 02,05,’25
https://www.rfi.fr/fr/connaissances/20250502-les-conflits-dans-les-kivu-en-rdc-d%C3%A9cryptage-d-une-crise-%C3%A0-six-dimensions
La crisi nei Kivu (a est della Repubblica Democratica del Congo / RDC), non si riduce a un singolo conflitto, né a una singola causa, come i minerali o le tensioni etniche. È il risultato di un intreccio di fattori storici, territoriali, politici e di insicurezza che si sono alimentati a vicenda per ben oltre tre decenni.
È una crisi che dura da tre decenni, ripetono quasi tutti gli osservatori. Ma in realtà le radici del conflitto in questa parte orientale della RDC risalgono a molto tempo prima. Si può parlare di un singolo conflitto o di più conflitti intrecciati? Contrariamente al discorso dominante, non tutto può essere ridotto alla sola questione mineraria, come sostengono alcune autorità di Kinshasa, né al problema della discriminazione anti-Tutsi, spesso sollevato da Kigali.
La realtà è più complessa. Si basa su dinamiche intersecanti, antiche, spesso sovrapposte, che si rafforzano a vicenda. L’obiettivo di questo approfondimento è fornire delle chiavi di lettura per meglio comprendere le attuali tensioni vissute nel Kivu. Perciò, abbiamo confrontato fonti attuali, lavori storici ed esperti del settore. Possiamo identificare almeno sei principali fattori che strutturano questa crisi. Sono interconnessi, a volte intrecciati, e tutti contribuiscono all’intensificazione o alla persistenza della violenza.
a. Demografia e politicizzazione della questione identitaria
La regione del Kivu è al centro di una dinamica demografica eccezionale. Come spiega il geografo francese Roland Pourtier, questa zona equatoriale è avvantaggiata dall’altitudine. Egli afferma: «La frescura impedisce la presenza della mosca tse-tse, il che è positivo, sia per l’agricoltura che per l’allevamento del bestiame e, da molto tempo, ciò ha attirato popolazioni di agricoltori e di pastori». Di conseguenza, il Kivu è una delle aree più densamente popolate dell’Africa.
A questa densità naturale, si aggiunge una complessa storia di immigrazioni, in particolare quella delle popolazioni Banyarwanda. Secondo Filip Reyntjens, esperto dei Grandi Laghi Africani, alcune di queste popolazioni migrarono dal sud-ovest del Ruanda già nel XVIII secolo. Hanno quindi gli stessi diritti alla nazionalità congolese come gli altri gruppi presenti da molto tempo, come i Bashi o i Banande.
Un’altra dimensione da tenere in considerazione è evidenziata dal geografo Jean-Pierre Chrétien, il quale ricorda che, a partire dagli anni 1930, le autorità belghe hanno favorito un importante flusso migratorio di ruandesi verso il Congo Belga, soprattutto verso il nord-ovest del lago Kivu. Jason Stearns, ricercatore presso il Center on International Cooperation della New York University, dove dirige il gruppo di ricerca sul Congo, afferma che, tra il 1928 e il 1956, furono trasferite più di 150.000 persone dal Ruanda, principalmente per soddisfare il fabbisogno di manodopera per le attività minerarie e agricole della colonia, in particolare nel territorio di Masisi, dove la popolazione locale Hunde spesso si rifiutava di lavorare per i coloni.
Di conseguenza, nel corso del tempo, nel Masisi la densità demografica è aumentata da 12 abitanti/km2 nel 1940 a 111 abitanti/km2 nel 1990 e la popolazione bovina è passata da 21.000 capi nel 1959 a 113.000 nel 1983. Questa rapida crescita ha causato una forte pressione sul territorio, suscitando intense rivalità.
Le prime tensioni politiche si sono manifestate nel 1958, in occasione delle elezioni comunali. Alcuni leader locali negarono il diritto di voto ai migranti che si erano stabiliti nel Kivu durante la colonizzazione, nonostante fossero legalmente cittadini congolesi. Sotto il regime di Mobutu (1965-1997), la nomina di amministratori esterni ha talvolta contribuito a placare temporaneamente le rivalità.
Ma è stato a partire dal 1991, con l’annuncio di un censimento nazionale, che le tensioni si sono riaccese. Kinshasa ha lasciato intendere che i “trapianti” coloniali non sarebbero stati riconosciuti come cittadini zairesi. È quindi scoppiata un’ondata di violenze, in particolare contro i centri di censimento del Masisi. La situazione è proseguita fino al 1993, per poi peggiorare dopo il 1994, con l’arrivo di 1,5 milioni di rifugiati hutu dal Ruanda, tra cui alcuni ex soldati del regime di Juvénal Habyarimana (1973-1994). Questo arrivo ha sconvolto gli equilibri locali, anche tra gli hutu e i tutsi congolesi.
Filip Reyntjens osserva che questi arrivi hanno accentuato le fratture e complicato l’elemento identitario: «I Banyarwanda erano visti come un gruppo unico ma, dopo il 1994, essi si sono riscoperti come Hutu o Tutsi». Reyntjens parla di “identità variabili”, spesso manipolate da “fautori di insicurezza”, tra cui delle personalità appartenenti alla sfera economica o politica.
Questa instabilità demografica continua a essere un fattore di crisi anche oggi. Secondo la Commissione sui movimenti della popolazione (CMP), da gennaio 2025, 2,7 milioni di persone del Nord Kivu e 1,7 milioni di abitanti del Sud Kivu sono state costretta a fuggire dai loro villaggi a causa del conflitto in corso.
b. La terra: una fonte di conflitto?
Dalla ripresa delle ostilità nel 2024 e con l’avanzata del gruppo armato Alleanza Fiume Congo / Movimento del 23 marzo (AFC/M23) verso Goma (capoluogo della provincia del Nord Kivu), si sono osservati importanti movimenti di ritorno nelle zone rurali. Se in novembre 2024 quasi 700.000 sfollati vivevano in circa 100 siti situati nei dintorni di Goma, in febbraio 2025 erano rimasti solo cinque siti con circa 1.800 persone. Secondo l’UNICEF, «molti sfollati sono stati costretti dall’M23 ad abbandonare i campi profughi e a tornare nei loro villaggi. Spesso essi hanno trovato le loro terre e le loro case distrutte o occupate da altri civili o da gruppi armati. Questo fenomeno contribuisce ad aumentare il rischio di violenza intercomunitaria, soprattutto nelle zone in cui mancano i servizi essenziali».
L’accesso alla terra è uno dei fattori chiave, ma spesso sottovalutato, delle tensioni e dei conflitti. Gli esperti spiegano che la questione della terra non si limita solo alla questione dell’occupazione fisica delle terre: essa è piuttosto oggetto di sistemi giuridici concorrenti, di pratiche tradizionali sovrapposte da regimi legislativi statali e di una dolorosa serie di spostamenti e ritorni forzati delle popolazioni locali.
Il ricercatore Christoph Vogel sottolinea che la questione delle terre è innegabile, ma non viene ancora sufficientemente presa in considerazione. Non è solo una questione di popolazione o di demografia, ma anche di governance. La sovrapposizione tra pratica tradizionale e legislazione statale ha generato delle rivendicazioni contrastanti: alcuni rivendicano l’accesso alla terra per coltivarla o per farvi pascolare il bestiame, mentre altri rivendicano un diritto di proprietà formale e ufficiale. Secondo Vogel, «il sistema statale ufficiale non è in sintonia con il sistema tradizionale» e l’ambiguità dei ruoli tra potere Tradizionale e autorità pubblica alimenta le tensioni.
Il professor Filip Reyntjens, da parte sua, amplia il campo dell’analisi: «La questione della terra include anche i conflitti tra pastori/allevatori e agricoltori … Serve uno spazio per ogni mucca. Ciò crea un conflitto tra coltivatori e allevatori».
Anche l’evoluzione storica della legislazione fondiaria è un fattore importante. Prima della colonizzazione, il diritto fondiario era orale e basato sulle tradizioni. I coloni introdussero un nuovo sistema per destinare dei terreni alle piantagioni. Poi, sotto Mobutu, nuove leggi cambiarono nuovamente le regole. Ogni riforma del sistema agrario ha sempre creato nuovi squilibri. Infine, nell’Africa centrale, spiega Filip Reyntjens, la terra ha un forte valore economico e simbolico. A differenza dell’Europa, dove la maggior parte della popolazione non è più legata all’agricoltura, la maggior parte dei Congolesi vive ancora dei prodotti della terra, praticando un’agricoltura di sussistenza. Pertanto, ogni volta che lo status giuridico della terra viene modificato o contestato, si possono verificare gravi conflitti sociali.
c. L’attività mineraria: un’equazione tra economia, insicurezza e rivalità regionali
Nelle province del Nord e del Sud Kivu, anche i minerali strategici (oro, coltan, stagno e tantalio) sono al centro di tensioni persistenti. Lungi dall’essere l’unico fattore di conflitto, essi alimentano tuttavia una potente economia parallela, di cui beneficia un mosaico di attori: gruppi armati, reti di contrabbando, operatori economici locali e stranieri.
Il governatore del Sud Kivu, Jean-Jacques Purusi, ha dichiarato alla commissione Affari esteri dell’Assemblea nazionale francese che, al momento del suo insediamento, le risorse minerarie della sua provincia venivano estratte e commercializzate illegalmente da almeno 1.600 società minerarie. Secondo lui, ogni sei mesi vengono estratti circa 750.000 chilogrammi d’oro, che vengono poi fatti passare di contrabbando in Ruanda, dove vengono raffinati. Egli parla di un sistema di corruzione, in cui i capitali circolano in contanti attraverso la frontiera. In tale situazione, la provincia ha sospeso le attività minerarie (ordinanza del 18 luglio 2023), ha eliminato 147 tasse, ridotto la fiscalità dall’80% al 26% e imposto l’utilizzo di operazioni bancarie. Grazie a queste riforme e già nel primo mese, le entrate mensili della provincia sono aumentate da 500.000 a 1,75 milioni di dollari. Questi sforzi devono essere relativizzati con l’arrivo dell’AFC/M23 nella regione, che ha nominato un’amministrazione parallela con regole proprie.
Di fronte alle accuse che gli vengono rivolte, il Ruanda smentisce ogni sua implicazione nello sfruttamento illegale dei minerali congolesi. Il suo ambasciatore, François Nkulikiyimfura, sostiene che il Ruanda possiede risorse minerarie proprie e che non ha bisogno di procurarsele a Rubaya (Nord Kivu). Egli afferma che il suo Paese sta dando prova di trasparenza avendo, nel mese di giugno 2024, firmato un accordo con l’Unione Europea sulla tracciabilità dei minerali. Egli cita inoltre gli investimenti fatti per disporre di infrastrutture locali, come la fonderia di stagno (2018), la raffineria d’oro (2019) e la raffineria di tantalio (2024), in cui lavorano degli operatori provenienti dall’Africa e dall’Europa per trattare e trasformare legalmente i loro minerali.
Secondo Christoph Vogel, specialista in materia, l’oro è il principale minerale alla base dei conflitti in questa zona, soprattutto a causa del suo elevato valore, della sua facilità di trasporto e del fatto che, una volta fuso, non è più tracciabile. Zobel Behalal, ex membro del gruppo di esperti delle Nazioni Unite per la RDC, sottolinea che, nonostante la guerra, i flussi di minerali non si arrestano mai: “Il mercato non si lascia intimidire dalla guerra”. Egli mette inoltre in guardia dalle carenze degli attuali sistemi di tracciabilità, che spesso si limitano al controllo dei documenti, e chiede di dare priorità alla cooperazione regionale e ad accordi economici equilibrati per trasformare un’economia di guerra in un’economia della legalità.
d. La questione delle FDLR: una fonte importante di tensioni sul piano della sicurezza e della diplomazia
Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) sono un gruppo armato hutu ruandese creato nel 2000. Alcuni suoi membri provengono dalle milizie e dalle forze militari implicate nel genocidio tutsi del 1994. In più occasioni, l’ONU ha descritto le FDLR come uno dei maggiori gruppi armati stranieri operanti sul territorio congolese. Le FDLR vengono regolarmente menzionate nei rapporti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani (UNJHRO) per la loro implicazione in gravi violazioni dei diritti umani: omicidi, violenze sessuali e sequestri di persone, perpetrate principalmente sul suolo congolese.
Secondo François Nkulikiyimfura, ambasciatore del Ruanda in Francia, dal 1997 in poi, il Ruanda ha subito più di trenta attacchi da parte della FDLR, di cui più di venti tra il 2018 e il 2025. Egli sostiene che la continua presenza di questi combattenti FDLR nell’est della RDC rappresenti una persistente minaccia per la sicurezza del suo Paese e accusa Kinshasa di tollerare o addirittura di collaborare con questo gruppo, un’accusa che le autorità congolesi respingono.
Di fronte alle pressioni internazionali, in particolare da parte degli Stati Uniti, in novembre 2023 il generale Sylvain Ekenge, portavoce delle Forze armate della RDC (FARDC), aveva decretato il divieto assoluto di qualsiasi contatto tra soldati congolesi e le FDLR. Tale decisione era stata presa poco dopo la visita, a Kinshasa e a Kigali, di Avril Haines, direttrice dell’intelligence nazionale statunitense (DNI). Nel mese di giugno 2024, Robert A. Wood, ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, aveva già chiesto alla RDC di interrompere ogni legame con le FDLR e al Ruanda di cessare il suo appoggio all’AFC/M23.
Per gestire questa situazione, un barlume di speranza ha iniziato ad apparire alla fine del 2024, nel quadro del processo di pace di Luanda (Angola). I delegati della RDC, del Ruanda e dell’Angola avevano elaborato un “Concetto operativo” (CONOPS), un piano che prevedeva delle operazioni militari volte a neutralizzare le FDLR, con l’appoggio di truppe di paesi della regione. Tuttavia, l’attuazione di questo piano è stata bloccata, a causa delle numerose fragilità politiche, diplomatiche e logistiche sul campo.
Secondo diverse segnalazioni, le FDLR finanziano le loro operazioni attraverso varie attività illegali: commercio di legname da ardere e di carbone vegetale (makala), sequestri a scopo di estorsione e imposizione di tasse illegali nelle zone sotto il loro controllo.
e. Mancanza di governabilità e fallimento dello Stato: un terreno fertile per le violenze
Uno degli elementi chiave per comprendere la persistenza dei conflitti nella parte orientale della RDCongo è la fragilità strutturale dello Stato congolese. Questo deficit di governance non si limita alla mancanza di mezzi o di risorse umane. Riflette piuttosto un’incapacità quasi cronica di esercitare le funzioni fondamentali di uno Stato sovrano. Il professor Filip Reyntjens riassume la situazione come segue: «Lo Stato congolese è giuridicamente uno Stato ma, empiricamente, non svolge le funzioni essenziali di uno Stato».
In altre parole, sulla carta lo Stato esiste ma, nella realtà quotidiana, le sue funzioni sovrane – come il controllo del territorio, la riscossione delle imposte o l’erogazione dei servizi pubblici – sono ampiamente carenti. Secondo Reyntjens, questa mancanza di controllo consente l’insediamento duraturo di gruppi armati, l’ingerenza di eserciti stranieri sul suolo congolese e lo sfruttamento illegale delle risorse naturali da parte di attori locali o transnazionali. Egli insiste: «Tutto questo non sarebbe possibile se ci fosse uno Stato almeno minimamente funzionante».
Questo ripiegamento dello Stato a Kinshasa – o la sua assenza addirittura in alcune zone della capitale – rende impossibile una governance coerente su un territorio vasto e frammentato come quello della RDC. Questa fragilità dello Stato alimenta la percezione che la forza stia diventando l’unico mezzo di protezione e di sopravvivenza, come scritto nel 2012 da Jason Stearns, un rinomato ricercatore: «Questa debolezza dello Stato rafforza l’idea che il ricorso alla forza armata sia l’unico modo per proteggere la proprietà e le libertà individuali».
f. Narrazioni storiche e manipolazioni della memoria: un conflitto alimentato dal passato
Oltre alle cause economiche, politiche o di sicurezza, le narrazioni storiche costituiscono un’altra importante leva di tensione nel Kivu. La storia non viene solo utilizzata come strumento di legittimazione, ma anche reinterpretata per servire interessi politici e comunitari. Il ricercatore Christoph Vogel sottolinea l’impatto di queste narrazioni: «La reinterpretazione della storia e la manipolazione basata sulle narrazioni storiche hanno anche un impatto sul modo in cui il conflitto si sta emergendo oggi». Questa manipolazione può assumere diverse forme: la contestazione delle frontiere ereditate dalla colonizzazione, la mobilitazione di narrazioni incentrate sul vittimismo o il negazionismo di eventi importanti, come il genocidio ruandese del 1994. Tutti invocano “la propria storia” per giustificare la propria posizione attuale, ciò che complica la ricerca di un compromesso. Christoph Vogel continua: «C’è una mobilitazione politica attorno a narrazioni più o meno accettabili».
Questa strumentalizzazione spesso impedisce la risoluzione dei conflitti, anche quando delle soluzioni tecniche o economiche sembrano a portata di mano. Una decisione sulla gestione del settore minerario, per esempio, può essere respinta non per il suo contenuto, ma perché non tiene conto di un’ingiustizia passata, reale o presunta. Ogni parte ricorda le sue ferite: “L’RCD ha ucciso mio padre”, dirà uno, “Le FDLR hanno ucciso mia zia”, dirà un altro. Questa logica rende il conflitto perpetuo, perché i ricordi e le memorie si scontrano tra loro tanto quanto le ar
Zobel Behalal, esperto della Global Initiative against Transnational Organized Crime (GI-TOC), sottolinea i pericoli di questo approccio. Chiedendosi «da dove provengono le cause profonde?», egli fa appello a soluzioni che, radicate nell’economia, permettano di coinvolgere tutte le parti interessate. Secondo lui, l’economia può offrire delle soluzioni viabili, laddove la memoria a volte rimane un campo di battaglia senza fine.
2. LA (NUOVA) OFFENSIVA DELL’M23 SU GOMA
Un conflitto che non riguarda solo i minerali. Sette domande e risposte.
International Peace Information Service (IPIS) – 6 febbraio 2025
https://ipisresearch.be/fr/publication/the-new-m23-offensive-on-goma-why-this-long-lasting-conflict-is-not-only-about-minerals-and-what-are-its-implications-qa/
La rapida avanzata del Movimento del 23 Marzo (M23), sostenuto dall’esercito ruandese (RDF) nel Nord Kivu, ha colto di sorpresa la maggior parte di noi. La mattina del 29 gennaio 3025, i ribelli controllavano già in gran parte la città strategica di Goma, eccetto alcune ultime sacche di resistenza da parte dei soldati dell’esercito congolese e dei gruppi armati alleati. Il 3 febbraio, l’ONU riferiva che almeno 900 persone erano state uccise durante l’assedio di Goma e evidenziava episodi di esecuzioni sommarie, nonché casi di violenza sessuale e di genere e la distruzione di campi profughi. Dall’inizio del 2025, la situazione di estrema insicurezza ha inoltre costretto altre 237.000 persone a fuggire, aggiungendosi ai già 4,6 milioni di sfollati interni registrati nelle province del Kivu alla fine del 2024.
Per spiegare in forma rapida e comprensibile le cause di questa crisi umanitaria, il ruolo delle risorse naturali e, in particolare, dei minerali, è spesso sopravvalutato. Mentre l’attività mineraria e il commercio di minerali svolgono inevitabilmente un ruolo importante, essendo una parte vitale dell’economia locale, è tuttavia necessario valutare la questione delle risorse economiche in modo più ampio e globale, nel contesto degli interessi politici e delle problematiche sociali.
La recente ondata di violenza è la conseguenza della congiunzione di molteplici fattori di conflitto. Vi sono coinvolti molti attori diversi, ognuno con la propria agenda. Oltre a ciò, negli ultimi due anni diversi eventi e decisioni politiche hanno gettato benzina sul fuoco. Ciò ha portato all’attuale escalation della violenza nell’est della RDC.
Qui di seguito, abbiamo preparato una serie di otto domande e risposte che tentano di rispondere alle domande più importanti in modo conciso, evidenziando al contempo i vari aspetti e le complessità della situazione.
a. Qual è la portata dell’espansione territoriale dell’M23?
L’occupazione del Nord Kivu (o di alcune sue parti) da parte dell’M23 non è una novità. Dalla fine del 2021, l’M23 ha costantemente e successivamente occupato vari territori nel Nord Kivu e vi ha istituito delle sue amministrazioni parallele. A fine gennaio 2025, l’area di influenza dell’M23, che comprende i territori di Rutshuru, Nyiragongo e la maggior parte del Masisi, copriva circa 7.800 km² .
Fino alla fine di gennaio 2025, tuttavia, l’attenzione internazionale per l’est della RDC era molto bassa, poiché l’M23 non si era ancora avventurato su Goma, la città principale dell’est della RDC, benché l’avesse già circondata da quasi un anno. La conquista di Goma da parte dell’M23 nel 2012 aveva suscitato molta indignazione nell’ambito della comunità internazionale e diplomatica e, in quell’occasione, ciò segnò la fine della sua insurrezione. Si credeva quindi che l’M23 non avrebbe commesso di nuovo lo stesso errore. Ma poi, alla fine di dicembre 2024, l’M23 lanciò una nuova offensiva. Il 21 gennaio 2025 occupò Minova, nel territorio di Kalehe (Sud Kivu), Sake, l’ultima roccaforte prima di Goma, cadde il 24 gennaio.
Inoltre, da dicembre 2024, l’M23 ha anche effettuato alcuni attacchi sul fronte settentrionale, vicino a Bingi, nel territorio di Lubero. E successivamente si è diretto verso sud, nella provincia del Sud Kivu, dove ha occupato Nyabibwe il 5 febbraio.
b. Perché l’M23 ha ripreso le armi?
Benché il sostegno dell’esercito ruandese sia un fattore cruciale per spiegare la riapparizione dell’M23 nel 2021, il movimento non è semplicemente un rappresentante del Ruanda. Persegue innanzitutto i propri interessi e obiettivi.
L’M23 è stato creato per la prima volta nel 2012 da ex ufficiali del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) insoddisfatti dell’attuazione, da parte del governo congolese, di un accordo di pace del 2009, che avrebbe permesso al CDNP di trasformarsi in partito politico e di integrare le sue truppe militari nelle Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC). Nel 2021, l’M23 ha ripreso le armi dopo il fallimento di negoziati riservati con il governo congolese riguardanti l’attuazione delle Dichiarazioni di Nairobi del 2013, che avevano posto fine alla prima ribellione dell’M23.
L’M23 ritiene che il governo congolese non stia proteggendo adeguatamente le comunità ruandofone dell’est della RDC, vittime dell’odio e dei gruppi armati. Le tensioni tra queste comunità ruandofoni (Hutu e soprattutto Tutsi) e gli altri gruppi etnici del Nord Kivu risalgono al periodo coloniale e post-indipendenza. La competizione per l’accesso alla terra e il ruolo che le autorità locali svolgono nella gestione delle terre hanno alimentato tensioni che hanno messo le comunità le une contro le altre. Negli ultimi decenni, il governo congolese non è mai riuscito né ad attutire queste tensioni, né a garantire i diritti di proprietà terriera delle popolazioni locali. Inizialmente, l’obiettivo dell’M23 era quello di sconfiggere i gruppi armati rivali, assicurarsi il controllo sulla questione fondiaria accedendo al potere locale, proteggere le terre acquisite dalla comunità “Tutsi” e integrarsi nell’esercito nazionale.
La novità, tuttavia, è che le rivendicazioni dell’M23 hanno assunto sempre più una dimensione politica a livello nazionale, andando oltre la protezione delle comunità ruandofone delle province del Kivu. Attualmente, il movimento si sta ormai rivoltando direttamente anche contro il regime di Kinshasa. Ciò è accentuato dalla sua adesione all’Alleanza Fiume Congo (AFC), considerata ormai come l’ala politica dell’M23. L’AFC è stata fondata nel mese di dicembre 2023 dall’ex presidente della commissione elettorale, Corneille Nangaa, che ha affermato: “Il nostro obiettivo non è né Goma né Bukavu, ma Kinshasa, l’origine di tutti i problemi”. Il presidente Tshisekedi ha sempre percepito l’AFC come un tentativo intrapreso dall’ex presidente della Repubblica, Joseph Kabila, per estrometterlo dal potere, affermando “l’AFC è lui”.
Resta da vedere se l’M23 vorrà effettivamente rovesciare l’attuale governo. Al momento, il suo obiettivo primario sembra essere quello di fare pressione su Kinshasa, per negoziare direttamente, con lo scopo di integrare le sue unità militari nell’esercito nazionale, assicurarsi posizioni importanti all’interno dell’esercito e, addirittura, in seno al governo congolese.
c. Il governo congolese: come ha affrontato il ritorno dell’M23 alle armi?
Félix Tshisekedi ha assunto il potere nel 2019, dopo elezioni molto controverse. Molti ritengono infatti che i risultati elettorali pubblicati ufficialmente siano stati l’epilogo di un accordo con il presidente uscente Joseph Kabila. Durante il suo primo mandato, il presidente Tshisekedi si era concentrato sulla costruzione e riforma della sua (traballante) coalizione presidenziale, ma i suoi risultati politici sono stati piuttosto deboli. Inoltre, se la situazione di insicurezza nell’Est del Paese era già pessima quando egli è arrivato alla presidenza, le sue politiche non hanno fatto altro che peggiorarla.
Nel 2019, Tshisekedi ha intensificato la diplomazia regionale, per stabilire una cooperazione politica, economica e di sicurezza con i paesi vicini, soprattutto con il Ruanda e l’Uganda. Benché la diplomazia e la cooperazione regionali siano due aspetti importanti, questa la strategia adottata sembra aver sottovalutato, e persino esacerbato, le tensioni storiche esistenti tra i diversi leader regionali che, già da molto tempo, si sono combattuti per imporre la loro influenza sull’Est della RDC. Inoltre, queste alleanze regionali, in particolare quella con il Ruanda, sono state accolte con profondo sospetto all’interno della RDC e hanno alimentato una rinascita del sentimento anti-ruandese e anti-tutsi. Molti Congolesi vedono ancora il Ruanda e il suo esercito come un avversario e un nemico, a causa del loro ruolo nelle due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003).
In secondo luogo, in maggio 2021, il governo ha decretato la legge marziale per far fronte all’escalation della violenza in Ituri e nel Nord Kivu, ma l’insicurezza è drasticamente aumentata e la misura adottata ha peggiorato la situazione dei diritti umani nel paese.
In terzo luogo, poiché l’esercito congolese (FARDC) non è in grado di fermare l’avanzata dell’M23, a causa di problemi strutturali, come la disorganizzazione della catena di comando, la corruzione, la mancanza delle riforme necessarie, il fallimento del programma di disarmo e integrazione sociale dei membri dei gruppi armati e la mancanza di uno stipendio sufficiente dei militari, il governo ha deciso di combattere l’M23 per procura. Ha fornito un supporto militare e finanziario a una coalizione di gruppi armati congolesi, in seguito denominati “Wazalendo” (patrioti), tra cui i nemici giurati di Kigali, le Forzs Democratiche di Liberazione del Rwanda (FDLR). Inoltre, il reclutamento e il riarmo di questi gruppi armati rischia di complicare l’attuazione del programma di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (DDR).
In quarto luogo, negli ultimi anni, Kinshasa ha privilegiato la strategia militare, rifiutandosi di negoziare con l’M23, poiché considerato come gruppo terroristico. Giustificata o meno, questa decisione ha ignorato la realtà militare sul campo. Ogni volta che l’esercito congolese o i suoi alleati hanno lanciato un’offensiva contro l’M23, questa si è ritorta contro di loro e ha portato a una nuova avanzata dell’M23.
Infine, Tshisekedi è stato piuttosto instabile nelle alleanze militari. Ha esortato la Missione dell’ONU (MONUSCO) a ritirarsi dal Paese e i Caschi Blu hanno lasciato il Sud Kivu nel mese di giugno 2024. Nel corso del 2024, tuttavia, il governo sembra aver riconsiderato la cosa, almeno per il momento, poiché la situazione di insicurezza nel Nord Kivu si è ulteriormente deteriorata. Ha chiamato alcune società private di sicurezza, forze internazionali (EAC e SADC) ed eserciti nazionali (ugandese e burundese), rompendo qualche tempo dopo alcuni accordi, com’è stato il caso delle forze dell’EAC. Queste incoerenze hanno alimentato il caos e rischiato di esacerbare le tensioni regionali.
d. Qual è il legame con la politica nazionale?
Benché Tshisekedi sia stato “rieletto” alla fine del 2023, l’ opposizione ha messo in dubbio la validità dei risultati elettorali, dopo aver constatato gli enormi problemi logistici e i numerosi casi di corruzione. Inoltre, l’opposizione politici ora teme che Tshisekedi tenti di essere eletto per un terzo mandato modificando la costituzione, il che gli consentirebbe di rimanere in carica oltre il 2028. Queste azioni hanno spinto alcuni membri di spicco dell’opposizione politica a prendere una loro posizione propria come, per esempio, l’ex presidente Joseph Kabila e Moïse Katumbi, che lavorano per un’alleanza politica unita contro Tshisekedi.
Mentre la crisi dell’M23 continua ad aggravarsi, ci si può chiedere se essa possa condurre verso la fine del governo di Tshisekedi. A Kinshasa, l’opposizione politica condanna innanzitutto il Ruanda per il suo appoggio all’M23. Ma molti ritengono che anche Tshisekedi abbia la sua parte di responsabilità in ciò che sta accadendo nell’Est del Paese e lo criticano con veemenza. Perciò, Katumbi e Kabila sono visti con sospetto dal governo, poiché finora non hanno finora rilasciato alcuna dichiarazione esplicita sugli ultimi avvenimenti del Kivu.
Da quando si è distanziato dal suo predecessore Joseph Kabila, rimovendolo dalla maggioranza politica nel 2020, il presidente Tshisekedi lo considera come una minaccia. È anche convinto che Kabila sia l’ideatore della creazione dell’Alleanza Fiume Congo (AFC) e che abbia stretti rapporti con l’M23. Nonostante la sfiducia generalizzata nei confronti dell’M23, perché appoggiato dal Ruanda, il sostegno politico all’AFC potrebbe crescere gradualmente, con l’aumento della pressione dell’opposizione contro Tshisekedi.
Qualunque sia il tipo di influenza di Kabila sull’AFC, la caduta di Goma, capoluogo del Nord Kivu e principale città dell’est, e la decisione dell’M23 di marciare su Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, indeboliscono ulteriormente la credibilità di Tshisekedi, compromettendo così il suo futuro politico.
e. Anche il Ruanda è implicato nella guerra dell’M23?
L’M23 non sarebbe mai riuscito a realizzare un’espansione territoriale così importante senza il supporto del Ruanda. In vari rapporti, il gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha documentato come l’esercito ruandese stia fornendo equipaggiamento militare e addestramento all’M23. Ha persino segnalato la presenza di 3.000 – 4.000 soldati ruandesi che, nel Nord Kivu, combattono a fianco dell’M23. Il ministro degli Esteri della RDC, Thérèse Kayikwamba Wagner, ha riferito che altre truppe ruandesi supplementari avevano attraversato la frontiera prima dell’assedio di Goma e alcuni rapporti segnalano la presenza di circa 5.000 soldati ruandesi sul territorio di questa provincia. Il gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha precisato che le operazioni militari dell’M23 sono coordinate dal consigliere del presidente ruandese Paul Kagame, il generale James Kabarebe, già implicato nella catena di comando dell’M23 nel 2012, quando era ministro della Difesa in Ruanda.
f. Perché il Ruanda è intervenuto e continua a farlo?
Le ragioni del sostegno del Ruanda all’M23 e, più in generale, della sua ingerenza nel Nord Kivu sono molto complesse: preoccupazioni di sicurezza e competizione politica ed economica regionale per assicurarsi un sfera di l’influenza nell’Est della RDC e nella regione dei Grandi Laghi Africani.
Sin dal genocidio del 1994 in Ruanda, Kigali insiste sulla minaccia di insicurezza che incombe sul Ruanda a partire dalla situazione che caratterizza l’Est della RDC. Secondo Kigali, per garantire la sicurezza del Ruanda è necessario procedere allo smantellamento totale e definitivo delle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR), un gruppo armato creato nel 2000 e composto, tra altri, anche di ex militari e miliziani ruandesi che potrebbero aver partecipato al genocidio. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, le preoccupazioni di Kigali per garantire la sicurezza del Ruanda sono, in realtà, un pretesto per continuare ad affermare la propria influenza e egemonia sull’est della RDC. Se è vero che le FDLR, composte da circa 1.000 – 1.500 combattenti, sono ancora un gruppo armato importante e attivo nel sud del Nord Kivu, non rappresentano più una grave minaccia imminente per il Ruanda. Tuttavia, il pretesto per l’appoggio del Ruanda all’M23 è fondato sulla collaborazione delle FDLR con l’esercito congolese, una collaborazione che permette loro di intensificare il reclutamento di nuovi membri.
Tuttavia, indipendentemente dalla minaccia che le FDLR potrebbero o meno rappresentare per Kigali a partire dall’Est della RDC, ciò non toglie il fatto che il genocidio continua ad essere ancora un’esperienza traumatica vissuta nella paura della violenza. Jason Stearns spiega molto bene come il Fronte Patriottico Ruandese (FPR) di Kagame abbia bisogno e si serva di una minaccia esterna di insicurezza proveniente dall’est della RDC per legittimare il suo regime e per reprimere le voci di oppositori e dissidenti: ” Dato il posto centrale che il genocidio gioca ancora nella memoria e nella politica ruandesi, le FDLR rimangono una potente minaccia simbolica”.
In secondo luogo, l’Est della RDC offre grandi opportunità economiche ai paesi confinanti, tra cui l’Uganda e il Ruanda: soprattutto questi due Paesi competono tra loro per trarre il maggior profitto possibile dall’esportazione, sui mercati orientali (Cina, Dubai, Qatar, …) e occidentali (USA e EU) delle risorse naturali provenienti dalla RDC, ma anche dalla vendita di prodotti agricoli e beni di consumo e dall’offerta di servizi sul mercato congolese.
Nel 2021, appena prima della riapparizione dell’M23, il (fragile) equilibrio regionale di potere nella regione dei Grandi Laghi Africani si è frantumato, quando Kigali ha percepito che la sua “zona di influenza” nell’est della RDC fosse messa in questione e minacciata. L’Uganda e la RDC avevano infatti annunciato una collaborazione militare tra i loro due Paesi e un progetto di riabilitazione di strade congolesi. Truppe ugandesi sono state dispiegate nell’Ituri e nella parte settentrionale del Nord Kivu (Grand Nord) in novembre 2021, nell’ambito della “Operazione Shujaa” con l’obiettivo di combattere e sconfiggere le Forze Democratiche Alleate (ADF), un gruppo armato di origine ugandese. Tuttavia, gli analisti hanno fatto riferimento anche ad altri motivi economici, tra cui la riabilitazione di strade congolesi per favorire il commercio tra l’est della RDC e l’Uganda.
Nello stesso tempo, la RDC aveva rifiutato ogni tipo di collaborazione militare con il Ruanda e, poco dopo, aveva sospeso un accordo minerario con la raffineria d’oro ruandese Dither.
Il fossato tra Kinshasa e Kigali sembra essere diventato incolmabile. Tshisekedi ha intensificato la retorica nazionalista contro il Ruanda come parte della sua campagna elettorale del 2023. Il governo congolese ha incaricato uno studio legale per denunciare il contrabbando di minerali congolesiverso il Ruanda e ha chiesto un boicottaggio delle esportazioni ruandesi dei minerali 3T (stagno, tungsteno, tantalio).
Tuttavia, Kagame sembra sentirsi più che mai autorizzato a osare un nuovo attacco su Goma da parte dell’M23. Mentre l’Europa ha condannato l’appoggio del Ruanda all’M23, Kigali sa che l’Europa ha sempre più bisogno del Ruanda come partner “stabile”, nel continente africano, per la lotta contro il terrorismo e per l’importazione di risorse minerali e petrolifere. Si tratta, per esempio, della firma di un protocollo di intesa sulle catene di valore aggiunto delle materie prime, tra cui i minerali 3T, e di un pacchetto di aiuti militari per Kigali per il finanziamento delle sue truppe in Mozambico.
Questa collaborazione dell’UE con Kigali non è ben accolta nella RDC. Il politico congolese Christophe Lutundula ha fatto riferimento alle intenzioni del Ruanda, e in particolare del Presidente Kagame, nei termini seguenti: “Vuole dimostrare alla comunità internazionale che è l’unico interlocutore valido con cui trattare per questioni di sicurezza, pace e cooperazione con la Regione dei Grandi Laghi Africani. … Se volete trattare con la regione dei Grandi Laghi, dovrete trattare con me”.
L’obiettivo immediato di Kigali sottostante l’ultima offensiva dell’M23 è materia di speculazioni. In ogni caso, sembra che l’occupazione di Goma da parte dell’M23 sia stato innescato dal fallimento dei negoziati di Luanda (Angola) nel mese di dicembre 2024, quando la RDC ha categoricamente respinto la richiesta del Ruanda di un dialogo diretto tra l’M23 e la RDC. La rapida espansione territoriale e la conquista di importanti città e località da parte dell’M23 servirebbero per aumentare la pressione sul Presidente congolese Tshisekedi, affinché accetti di negoziare direttamente con M23, ciò che indebolirebbe ulteriormente la posizione di Tshisekedi e aumenterebbe l’influenza del Ruanda sull’Est del Paese. Pertanto, la paura della “balcanizzazione” è generale: una convinzione ampiamente diffusa nella RDC è che la comunità internazionale in generale e il Ruanda in particolare stiano cercando di dividere la RDC in più parti. Altre fonti ritengono che Kigali potrebbe volere o un’occupazione permanente dei Kivu da parte dell’M23 e con un’amministrazione favorevole a Kigali o, addirittura, un cambio di regime a Kinshasa o la creazione di una zona cuscinetto nell’Est della RDC, ciò che risponderebbe sia alle esigenze strategiche, economiche e di sicurezza sopra menzionate.
g. Qual è il ruolo dei minerali?
I minerali svolgono un ruolo nel finanziamento dei conflitti in corso nell’Est della RDC e sono alla base di tensioni geopolitiche regionali più ampie. Infatti, l’estrazione mineraria e il commercio dei minerali sono una parte importante dell’economia locale e dei flussi commerciali regionali. Tuttavia, i minerali non dovrebbero essere considerati come la causa principale del conflitto. In realtà, i conflitti nell’Est della RDC sono molto più complessi di quanto possa apparire a prima vista, poiché ruotano attorno a problemi riguardanti l’autorità (tradizionale), l’accesso alla terra e alle risorse, la cittadinanza nazionale, le disuguaglianze sociali e le lotte per il potere politico.
Negli ultimi decenni, nell’est della RDC sono apparsi numerosi gruppi armati che affermano di volere proteggere gli interessi delle proprie rispettive comunità locali ma che, per il loro finanziamento, si dedicano all’attività mineraria come principale fonte di reddito.
La tendenza dell’M23 è simile. Inizialmente, il movimento ha cercato di salvaguardare gli interessi della comunità Tutsi, assicurandone l’accesso alla terra e al potere locale nel Nord Kivu e lottando contro la discriminazione sociale da esso percepita nei confronti della comunità Tutsi.
Da parte sua, il Gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha affermato che gli obiettivi chiave degli attacchi militari dell’M23 erano le postazioni delle FDLR: “L’M23 e le truppe dell’esercito ruandese hanno specificamente preso di mira le località abitate prevalentemente da Hutu e situate in zone note per essere delle roccaforti delle FDLR e dei Mai-Mai Nyatura”.
Nello stesso tempo che l’M23 amplia il suo controllo territoriale, esso procede a sostituire le autorità locali con persone ad esso fedelissime e, nei territori occupati, impone il suo controllo su tutti gli aspetti della governance locale. Così facendo, cerca anche di controllare l’economia locale del Nord Kivu, tra cui le filiere di approvvigionamento minerario. In origine, l’M23 gestiva principalmente dei posti di blocco stradali in cui, tassava i minerali contrabbandati in Ruanda e vari altri flussi commerciali. All’inizio del 2024, dopo più di due anni di ribellione, l’M23 non controllava ancora alcun sito minerario. Solo alla fine di aprile 2024, esso è riuscito a penetrare in zone ricche di minerali del Nord Kivu e ha iniziato a dedicarsi all’attività di estrazione del coltan (tantalio) . Da allora, ha ampliato la sua sfera di controllo in varie zone ricche di minerali nei territori di Masisi e Kalehe.
A livello regionale, il commercio dell’est della RDC in generale, e dei minerali in particolare, è tradizionalmente rivolto verso l’Africa orientale. Nell’Est della RDC, esistono vari corridoi commerciali importanti attraverso cui l’oro e i minerali 3T sono immessi sul mercato mondiale attraverso l’Uganda, il Ruanda, il Burundi, la Tanzania e il Kenya. Inoltre, è da molti decenni che il contrabbando transfrontaliero praticato su larga scala rappresenta un enorme problema per la RDC. Per molto tempo, l’Uganda è stato il principale esportatore di oro congolese (di contrabbando), mentre il Ruanda è stato il principale esportatore di minerali 3T congolesi. A partire dal 2017, il Ruanda è diventato anche un punto sempre più importante della destinazione dell’oro proveniente di contrabbando dalla RDC. Di conseguenza, negli ultimi anni, l’Uganda e il Ruanda competono tra loro per essere la porta principale di ingresso dell’oro congolese nel mercato mondiale. L’oro è diventato il prodotto di esportazione più importante di entrambi i paesi in termini di valore, rappresentando, nel 2022, circa il 48% del valore totale delle esportazioni dell’Uganda e il 31% del valore totale delle esportazioni del Ruanda. Per il Ruanda, la quota totale delle esportazioni di minerali sale anche oltre il 40% del valore totale delle esportazioni, poiché esporta anche notevoli volumi di stagno e tantalio che, generalmente, vi sono introdotti di contrabbando dalla RDC.
Vari attori continuano a trarre profitto dal contrabbando dei minerali tra l’est della RDC e i Paesi limitrofi. Tra essi si possono citare gruppi armati, ufficiali militari e personalità politiche. Global Witness, ad esempio, ha accusato (il consigliere presidenziale ed ex ministro della Difesa ruandese) James Kabarebe di essere implicato nell’organizzazione del contrabbando di minerali in Ruanda durante gli anni 2010. Tali attori e individui traggono chiaramente un enorme vantaggio dallo status quo e dalla persistenza dell’insicurezza nella parte orientale della RDC e, di conseguenza, anche dalla rinascita dell’M23.
La concorrenza tra il Ruanda e l’Uganda nel commercio minerario internazionale e il suo impatto sul finanziamento dei conflitti nell’Est della RDC devono essere contestualizzati.
La rivalità sulle rotte di esportazione dell’oro congolese fa parte di una geopolitica regionale più ampia e di dinamiche di integrazione regionale (economica). L’Est della RDC è un mercato importante per i Paesi vicini anche per prodotti agricoli, beni di consumo e servizi. La RDC è il secondo Paese di destinazione delle importazioni ruandesi, rappresentando circa il 25% del valore totale delle esportazioni del Ruanda. Tra le esportazioni del Ruanda verso la RDC si possono citare riso, zucchero grezzo, petrolio raffinato, pesce congelato, ecc.