INDICE
- BUKAVU (SUD KIVU): UNA CITTÀ LASCIATA ALLA FAME E ALLO SBANDO (TESTIMONIANZA)
- I PRIMI 100 GIORNI DI GOMA (NORD KIVU), CITTÀ “LIBERATA” (TESTIMONIANZA)
- BUKAVU OGGI: UNA CITTÀ OCCUPATA (INTERVISTA)
1. BUKAVU (SUD KIVU): UNA CITTÀ LASCIATA ALLA FAME E ALLO SBANDO (TESTIMONIANZA)
Agenzia Fides – Bukavu, 12/5/2025 [1]
Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, è stata conquistata il 16 febbraio dai guerriglieri dell’M23 (vedi Fides 17/2/2025). Da allora la città vive in una sorta di limbo, a causa dell’insicurezza e della mancanza dei servizi di base che dovrebbero essere garantiti dalle istituzioni statali non più presenti.
Una missionaria (che ha chiesto di non pubblicare il suo nome per motivi di sicurezza), racconta: «Ieri mattina sono uscita in città e ho visto un bambino di sette-otto anni, seduto ai lati della strada, con la divisa scolastica e un quaderno sulle ginocchia. Gli ho chiesto: “Come mai sei in strada a quest’ora anziché a scuola?”. Ed egli mi ha risposto: “Mi hanno mandato via, perché non ho pagato il trimestre. Mio fratello è rimasto, i miei genitori hanno pagato per lui ieri, ma non sono riusciti a pagare anche per me. Lo aspetto quando esce e poi torniamo a casa insieme”. La sua tristezza mi ha invaso: “Non è colpa tua né dei tuoi genitori. I bambini hanno diritto di studiare gratuitamente. È il paese che non va…”. Ha annuito e ho continuato la strada».
In questo tempo di persistente chiusura di banche e cooperative, persino l’aiuto umanitario diventa difficile, e quanti avrebbero bisogno di aiuto! La povertà dilaga di giorno in giorno: tanti hanno perso il lavoro per il saccheggio di negozi e depositi, per la indisponibilità di denaro indispensabile per pagare gli stipendi, per essere stati sostituiti, nel caso dei pubblici funzionari, con persone assunte dai nuovi padroni, e a volte per aver rifiutato di sottostare alla loro ideologia.
Da tre mesi in città non sono attivi né poliziotti, né commissariati di polizia, né prigione centrale, né tribunali, né giudici, né avvocati. La giustizia è resa dal ramo militare dell’M23, in modo sbrigativo. Giorni fa, un pover’uomo, che andava al lavoro alle 7 del mattino risalendo le viuzze del suo quartiere, ha incontrato alcuni uomini armati che l’hanno accusato d’essere un ladro e lo hanno immediatamente ucciso a colpi di armi da fuoco.
A volte anche il lago Kivu fa riapparire cadaveri inutilmente affondati con pietre legate addosso. Non ci sono inchieste e spesso non si sa chi ha ucciso nella notte: un M23? Un ladro, approfittando delle armi lasciate dai militari congolesi in fuga? Un ex-carcerato, fra gli oltre duemila evasi appena prima dell’arrivo dell’M23, il 16 febbraio? Vendette e rese di conti? Per eliminare qualcuno, basta accusarlo d’essere un ladro, o un militare, o uno dei Wazalendo. O è stato un gruppo di gente, esasperata dall’insicurezza e dalla fame? I casi di “giustizia popolare”, esecuzioni a furor di popolo, sono infatti molti. Esasperati, senza ricorso, afferrano uno o più presunti ladri e li mettono a morte immediatamente. Questo, però, non scoraggia il ripetersi dei fatti.
Bukavu è una città non gestita, abbandonata alla fame e lasciata allo sbando. Molti veicoli privati e pubblici sono stati presi dagli occupanti, utilizzati o inviati nel vicino Ruanda. Tasse ingiustificate sono imposte su ogni fagotto che viene in città dalla campagna su una moto o stipato in un bus; multe senza ragione sono comminate per infrazioni inesistenti. E frutti nella città non se ne vedono.
In queste ultime settimane dell’anno, la grande sofferenza è quella dei bambini, scacciati da scuola, come se non bastassero i traumatismi subiti per settimane per i continui spari. Sono spesso anche testimoni di violenze: che cosa viene seminato nel loro cuore, nel tempo in cui dovrebbero sognare cose belle?
La gente riempie le chiese, s’aggrappa con tutte le forze al Dio in cui crede e che sa essere all’ascolto degli oppressi, ma umanamente non vede alcuna via d’uscita. Autorità lontane a cui manca perfino una parola di compassione, grandi potenze che cercano il loro interesse, dei negoziati di pace che sembrano scene teatrali. La gente arriva a dire: ci portino pur via tutti i nostri minerali, ma ci lascino vivere.
Essere nell’est del Congo oggi è come assistere a una lunga agonia. Ma la tenacia della gente di sorridere, il coraggio di essere solidali, di sposarsi, di mettere ancora al mondo e di ringraziare Dio ogni giorno per esserci ancora è come una carezza che vuol far rivivere la speranza.
Una signora di una delle comunità cristiane, chiamate “shrika”, che a turno portano cibo all’Ospedale generale, testimonia: «Ieri è stato il turno della nostra comunità per l’apostolato all’Ospedale. C’era cibo a sufficienza per i malati e per chi li curava; anche le infermiere notturne, il personale addetto alla manutenzione e alla sicurezza ne hanno beneficiato. I feriti di guerra e i combattenti sono assistiti dal CICR e da Medici Senza Frontiere. Molte persone non sanno come pagare i costi delle cure, quindi, sebbene guarite, non possono lasciare l’ospedale. Il gruppo ha contribuito a pagare le spese mediche di alcuni di loro e le medicine di alcuni altri senza mezzi. Il numero dei pazienti diminuisce e quindi anche le entrate. Come è possibile rifornire la farmacia, pagare il personale e acquistare attrezzature mediche in una crisi come questa? È un circolo vizioso. I bambini malnutriti sono sempre più numerosi: ma tutti sono stati serviti. È la moltiplicazione dei pani».
2. I PRIMI 100 GIORNI DI GOMA (NORD KIVU), CITTÀ “LIBERATA” (TESTIMONIANZA)
Agenzia Fides – Kinshasa, 14/5/2025 [2]
«Goma capitale della Regione del Nord Kivu: 2.000.000 di abitanti. Città occupata, in ginocchio. Allungata lungo le rive del lago Kivu, accarezzata dal tepore del vulcano Nyiragongo, la sua bellezza e la sua pace da una trentina d’anni si stanno trasformando in lacrime di paura e di morte». Inizia così la testimonianza pervenuta all’Agenzia Fides da Goma città caduta nelle mani dei ribelli dell’M23 a fine gennaio. La pubblichiamo integralmente omettendo il nome dell’autore per questioni di sicurezza.
«Il 28 gennaio scorso, dopo due giorni di accaniti combattimenti dell’esercito regolare congolese, aiutato dai “Wazalendo” (patrioti-partigiani), contro l’AFC (Alleanza del Fiume Congo) e M23 (Marzo 23, gruppo ribelle invasore con supporto dell’esercito ruandese), la città è stata per un’ennesima volta “liberata”. Una liberazione che ha falciato la vita di migliaia di cittadini innocenti; morti sulle strade, nelle case senza protezione perché in gran parte fatte di tavole. I saccheggi, gli stupri, gli abusi alla ricerca di denaro da parte di uomini armati di ogni obbedienza e bandiera, sono indescrivibili.
Si sono aperte ferite che dopo 100 giorni sono ancora sanguinanti nel corpo e nella memoria. Ma altre ferite si stanno ancora aprendo. Feriscono la libertà di espressione, la dignità della persona umana, il diritto a una vita serena, a una pace dello spirito e del corpo.
Oggi la legge del terrore corre lungo la canna del fucile e i nodi del bastone. Non ci sono più tribunali legali. Alcuni luoghi, detti di detenzione (alias torture), ne hanno preso il posto. Non ci sono più le prigioni (circa 3.000 prigionieri si sono volatilizzati durante la presa della città): i giudizi sono spesso sommari e immediati anche a cielo aperto.
La notte diventa un incubo per i quartieri più indifesi: uomini in armi vi fanno irruzione per rubare e stuprare. Sono ex-prigionieri, ex-militari dell’esercito regolare congolese nascosti nei sobborghi, ex-wazalendo, ex… ex…; con il favore delle tenebre si perde ogni identità. Non è raro che alcuni vengano catturati dalla gente che viene in soccorso alle famiglie attaccate: al mattino i loro corpi giacciono abbandonati sulla strada. A volte pure bruciati. La paura, la rabbia, la mancanza di una struttura legale di diritto danno “diritto” a una giustizia popolare impersonale.
La caccia ai presunti autori hutu del genocidio del 1994 in Ruanda, (attualmente conosciuti come FDLR- Forze Democratiche di Liberazione Ruandesi) nascosti nei quartieri, è spesso un pretesto per una resa dei conti di vecchie inimicizie a volte anche di carattere etnico. Così le tensioni già esistenti si acuiscono. Gli arresti e sparizioni di persone, spesso per motivi futili o sconosciuti, fanno parte della politica di oppressione perché nessuno possa alzare la testa, perché le lingue si secchino.
Il sistema finanziario è bloccato: le banche sono chiuse. Tutti i dipendenti statali, compresi gli insegnanti delle scuole convenzionate, ricevevano lo stipendio con il sistema bancario, e sono sempre in attesa di una soluzione che non arriva. Pure il commercio con l’interno del Paese e all’estero è paralizzato. L’aeroporto internazionale, polmone della vita della città, bombardato e manomesso durante la battaglia per la presa della città, è inagibile.
Le promesse per mantenere viva la speranza per un avvenire prossimo migliore – propaganda di occupazione che paragona il nuovo regime di “liberazione” migliore con il vecchio regime di Kinshasa corrotto e inefficace – sono tante; ma sfumano con il passare dei giorni.
Molti giovani, delusi della vita o disperati per la rabbia, si arruolano volontari per andare a combattere nell’esercito dei nuovi padroni contro l’esercito regolare del governo centrale. Soluzione o illusione? Morire per morire: vale la pena tentare.
Ma la lotta per la vita non è stata infranta. La gente si aiuta reciprocamente, in mille maniere. Le decine di migliaia di sfollati i cui campi sono stati smantellati dai nuovi dirigenti, hanno trovato rifugio presso amici o parenti o gente di buona volontà. Condividono le stesse paure, le stesse sofferenze, ma anche le stesse speranze.
Le croci aumentano, a volte anche invisibili perché delle persone scomparse non vi sono più tracce. Ma fra le rocce della lava nera del vulcano Nyiragongo, disseminate lungo i sentieri dei quartieri, stanno spuntando dei fiori. Con difficoltà, perché la terra è ancora imbibita di sangue. Sono fiori dallo stelo esile, ma profumati e colorati: fiori rossi colore delle lacrime calde versate ogni giorno; fiori verdi della speranza e della resilienza perché la vita non muoia; fiori simbolo di una nuova società: la nuova società del Congo che sta nascendo fra le ceneri della guerra. Si, perché la vita è come il sole: per quanto lunga e burrascosa sia la notte, all’alba il sole riappare».
3. BUKAVU OGGI: UNA CITTÀ OCCUPATA (INTERVISTA)
Teresina Caffi – Pressenza.com – Bukavu, 12.05.25 [3]
Intervista di Teresina Caffi a Raphael Wakenge, membro della Società Civile.
In fondo una precisazione da parte dell’intervistatrice.
Lo scorso 16 febbraio, il movimento M23/AFC, sostenuto da numerosi militari ruandesi, è entrato senza una vera opposizione nella città di Bukavu, nel Sud-Kivu, Repubblica Democratica del Congo. Qual è la situazione della città a circa tre mesi da questo evento? Lo abbiamo chiesto a Raphael Wakenge, decano della Società civile della Provincia, coordinatore dell’Iniziativa congolese per la giustizia e la pace (Icjp, e-mail: icjp2014.rdc@gmail.com) e coordinatore nazionale della Coalizione congolese per la giustizia di transizione, che vive a Bukavu.
Domanda: Qual è la situazione attuale della sicurezza nella città di Bukavu?
Risposta: Rimane preoccupante. Ricordiamo che dall’entrata dell’M23, all’inizio di febbraio 2015, la provincia del Sud Kivu è divisa in due: la parte meridionale è governata dalle autorità provinciali, il resto da un governo de facto stabilito dall’M23 nella zona che controlla. In quest’ultima parte, la vita umana è profanata; ogni giorno si raccolgono cadaveri, si registrano rapimenti di uomini e donne: a volte vengono ritrovati vivi, ma la maggior parte morti. Oppure scompaiono.
D. Quali sono le sfide quotidiane che la popolazione di Bukavu affronta?
R. Nel Sud Kivu in generale e a Bukavu in particolare, c’è incertezza: nessuno sa cosa può succedere e ognuno si chiede quando finirà il calvario che sta attraversando. La gente fatica ad accedere anche ai mezzi di sostentamento: avere l’acqua, l’elettricità è un problema, del cibo non ne parliamo. Poiché le persone non possono accedere alle banche, al microcredito, alla loro retribuzione, è difficile sopravvivere. Alcune istituzioni non funzionano più: non si può arrivare facilmente al proprio posto di lavoro. È difficile raggiungere i territori che producono per la città o trasportare i prodotti agricoli a causa della mancanza di manutenzione delle strade e delle infrastrutture stradali nonché dei posto di blocco a pagamento installate dalle milizie filogovernative Wazalendo o dall’M23. Sui prodotti provenienti dalla città di Goma, l’M23 impone una doppia tassazione. Tutto ciò fa aumentare il costo della vita e accresce l’impoverimento della popolazione di Bukavu.
D. Queste tasse vanno a beneficio della popolazione?
R. Secondo le informazioni che abbiamo, non si sa dove finiscano e i vantaggi per la popolazione non si vedono. Così è netta l’impressione che gli abitanti continuino a non avere fiducia nei nuovi padroni della città.
D. Le rapine e i saccheggi continuano?
R. Vengono segnalati regolarmente casi di furti e saccheggi. L’identità degli autori non è ancora ben definita: M23, o persone che si nascondono sotto l’identità dell’M23, persone che si presume fossero nelle carceri, delinquenti di lungo corso, elementi incontrollati della polizia e dell’esercito che non hanno seguito gli altri nella loro fuga … Il monitoraggio dei casi continua. Quando sarà il momento, gli attori della società civile cercheranno di scoprire chi ha realmente commesso tali atti; allora avremo bisogno di giurisdizioni competenti. Il furto e il saccheggio di beni dello Stato è particolarmente preoccupante. E si verifica apertamente.
D. Cosa pensare della moltiplicazione dei fatti di «giustizia popolare»?
R. In una situazione normale, di fronte a un crimine o a un reato, ci sono istituzioni competenti a intervenire, in particolare la polizia, la giustizia, i tribunali. Purtroppo, dopo l’occupazione, questi organi non esistono più a Bukavu, e non ci sono più carceri, né commissariati di polizia. Tutte queste assenze portano una parte della popolazione a commettere azioni di giustizia popolare. Nella provincia del Sud Kivu, esisteva già, accanto al codice penale, un editto provinciale per arginare la giustizia popolare. Tutti questi progressi sono caduti in disuso a seguito dell’incursione armata dell’M23. Finché non ci saranno istituzioni, finché saremo in questa situazione, si susseguiranno i casi di giustizia popolare. Bisogna davvero che si finisca il prima possibile, che si metta al primo posto l’interesse superiore della popolazione. Anche l’educazione dei bambini e dei ragazzi rischia di essere disturbata: l’infanzia sembra abituarsi a vedere persone uccise e presunti colpevoli subire la giustizia della strada. Finendo per credere che sia normale.
D. In che altro modo la gioventù è colpita dalla guerra?
R. Già le Forze armate nazionali, i Wazalendo e altri erano alla ricerca di giovani da reclutare; i loro comunicati chiedevano alla popolazione di favorire l’arruolamento. Adesso è la volta dell’M23, che probabilmente ha bisogno di nuovi miliziani, per sostituire i militari ruandesi che, prima o poi, torneranno a casa. Alcuni giovani sembrano pronti ad aderire, altri resistono. La comunità soffre perché non sa cosa dire ai giovani, data la situazione. Il quadro più appropriato, cito la società civile, è quasi inoperante per mancanza di diversi fattori. Così oggi la gioventù è senza punto di riferimento, senza guida, abbandonata: non ci sono persone che possano orientarla efficacemente per il futuro. C’è un processo di educazione da rifare.
D. E dal punto di vista scolastico?
R. Dall’arrivo dell’M23, alcune scuole sono rimaste chiuse. I dirigenti hanno preferito così, a causa dell’incertezza quotidiana, dei traumi, degli allarmi relativi a questo o quell’elemento armato. Diversi alunni sono partiti con i loro genitori verso altre città o all’estero. In questo periodo, molti alunni vengono espulsi dalla scuola, perché i genitori non sono in grado di pagare i contributi richiesti, che servono a garantire gli stipendi degli insegnanti. Sebbene l’istruzione primaria pubblica sia stata dichiarata gratuita, oggi è difficile distinguere le scuole pubbliche dalle scuole private: sembra che tutto sia stato privatizzato, perché i genitori devono svolgere il ruolo che dovrebbe essere svolto dallo Stato, che è assente nelle zone sotto il controllo della ribellione. Così, il numero di alunni e studenti è diminuito, anche a livello delle università.
D. Si possono quantificare le persone decedute o scomparse a seguito di questa guerra?
R. È difficile allo stato attuale fare un bilancio dei morti, delle persone rapite, scomparse, sfollate. Ma la situazione rimane allarmante. Oggi, la maggior parte delle organizzazioni della società civile cerca di monitorare la situazione, ma non è poi possibile centralizzare i dati. Al momento opportuno, sarà importante che tutti questi attori che hanno potuto documentare i casi si riuniscano per fare il bilancio. Il sostegno della comunità internazionale sarà allora prezioso. La gente deve sapere che ci sono istituzioni a livello nazionale, regionale e internazionale le quali possono lavorare per garantire una vita degna.
D. Qual è l’atteggiamento della popolazione di Bukavu?
R. Ho visto gli abitanti di tre quartieri periferici uscire improvvisamente dalle loro case nel cuore della notte per scendere in strada e protestare contro le violazioni dei diritti umani commesse dall’M23. Penso che occorra gestire e orientare queste azioni, affinché non ci siano eccessi. Chi usa le armi deve capire che le armi non portano mai soluzioni durature. Sono meccanismi non violenti quelli che possono aiutare la popolazione a ritrovare la libertà e la sicurezza.
D. Qualunque sia l’appartenenza religiosa, la fede sembra avere un forte peso nella mente delle persone …
R. Io stesso sono cattolico e penso che la fede sia molto importante in questo processo. La Chiesa deve svolgere correttamente il suo ruolo. Ho seguito i discorsi di alcuni prelati cattolici, i messaggi di alcuni leader delle chiese protestanti, di alcuni imam della comunità musulmana, dei bramini: tutto dimostra che le chiese sono stanche di questa guerra. E’ stato proposto un patto per la riconciliazione, dai vescovi cattolici e dalle chiese protestanti: il processo va avanti, ma purtroppo alcune chiese non partecipano. Se alcune chiese hanno preso una buona iniziativa, è necessario che le altre vi si aggiungano, considerando più l’interesse generale che gli interessi particolari. Il processo avviato dalle chiese si incrocia con i negoziati internazionali: di Nairobi, di Luanda, di Doha, e adesso di Washington. Tutti questi non possono sostituire il processo di pace locale, necessario per trovare una soluzione sostenibile, nell’interesse delle generazioni future.
D. Cosa può fare la comunità internazionale?
R. È tempo che la comunità internazionale appoggi i processi di pace, individuando con chiarezza gli interessi della popolazione. In effetti, si ha l’impressione che mentre le parti belligeranti lottano circa il contenuto degli accordi, non si vedano affatto gli interessi della popolazione, che non è consultata, e meno che mai le donne e i giovani. Abbiamo bisogno che si metta l’interesse della popolazione al di sopra di tutto, solo così i diritti umani, la pace, la sicurezza, la lotta contro l’impunità possono assumere centralità.
D. Personalmente, quale via di pace vede?
R. Nei vari processi iniziati negli ultimi tempi, c’è un aspetto molto importante che non era sempre stato preso in considerazione: quello economico. Ci stiamo rendendo conto che la maggior parte degli attori coinvolti nei negoziati ha anche interessi economici a livello della Repubblica Democratica del Congo. Sono d’accordo con il processo che è stato recentemente avviato, perché bisogna che, a un certo punto, qualcuno dia una via da seguire. Questo stanno facendo gli Usa. Ma gli interessi degli USA non sono quelli dei cinesi; quelli dei cinesi non sono quelli degli abitanti del Qatar, o del Ruanda, o della Repubblica Democratica del Congo. La questione della sovranità assoluta non esiste per me: bisogna che ad un certo punto le persone accettino di cedere una parte di se stesse, ma bisogna sapere come cederla, in modo da trovare soluzioni ai problemi che abbiamo. Segnalo poi agli attori della comunità internazionale che la situazione in cui si trova la Repubblica democratica del Congo rimane preoccupante. I processi internazionali non possono trovare da soli soluzioni al problema congolese. Ci vuole una combinazione di meccanismi internazionali e locali per trovare risposte. E non si può sacrificare l’interesse generale all’interesse individuale: occorre un certo numero di consensi in modo da consentire la convivenza.
Nota Bene: Precisazione da parte dell’intervistatrice a proposito di quest’ultima risposta:
Confesso che rimango perplessa di fronte a queste «aperture» del mio interlocutore. Vedo i pericoli di fidarsi di «potenti» come gli Stati Uniti e altri, che hanno dichiarato il loro interesse come principio della loro politica estera. Vedo l’ingiustizia di accettare di cedere una parte del proprio paese per far finire la guerra. Ma capisco che dietro queste aperture ci sono decenni di indagini sugli orrori delle guerre in Congo. C’è la delusione di fronte all’unica via giusta ma trascurata: sanzioni internazionali capaci di fermare gli aggressori. C’è la preoccupazione di salvare almeno la vita dei congolesi. Questo è ciò che molti di loro dicono ormai, disperati: «Venite, prendete tutto, ma lasciateci la vita».
[1] https://fides.org/it/news/76343
[2] https://fides.org/it/news/76356-AFRICA_CONGO_RD_I_100_giorni_di_Goma_liberata_una_testimonianza_del_conflitto_dimenticato_nell_est_della_RDC
[3] https://www.pressenza.com/it/2025/05/bukavu-oggi-una-citta-occupata/