Congo Attualità n.229

INDICE

EDITORIALE: ADF e M23, le due facce di una stessa moneta?

  1. LE FORZE DEMOCRATICHE ALLEATE (ADF) E LORO ALLEATI

  2. IL MOVIMENTO DEL 23 MARZO (M23)

  3. I MAI MAI

  4. IL PROGRAMMA DI DISARMO E REINSERIMENTO (DDR)

  5. MAI-MAI DISPOSTI AD ESSERE SMOBILITATI

  6. Provincia Orientale

  7. Sud Kivu

1. LE FORZE DEMOCRATICHE ALLEATE (ADF) E LORO ALLEATI

 

Il 13 dicembre, cinque persone (quattro donne e un uomo) sono state uccise all’arma bianca nel villaggio di Mabuo, situato a circa 50 chilometri a nord di Beni. Dall’inizio di ottobre, in città e nel territorio di Beni, sono state uccise più di 260 persone. La popolazione accusa l’esercito congolese e la Monusco di passività o incompetenza, data la loro incapacità di arrestare questi massacri.[1]

Il 15 dicembre, una delegazione di rappresentanti della Conferenza Internazionale per la Regione dei Grandi Laghi (CIRGL) e della Comunità dell’Africa australe per lo sviluppo (SADC) è arrivata nella città di Beni, per valutare la situazione di insicurezza che vige nella zona. Dopo l’incontro con le autorità locali e gli ufficiali militari delle FARDC e della Monusco, la delegazione si è incontrata con le associazioni della società civile. Durante questo incontro, oltre a chiedere di prendere le disposizioni necessarie per la neutralizzazione dei ribelli ugandesi delle ADF, accusati di aver massacrato dei civili, il presidente della Società Civile del territorio di Beni, Teddy Kataliko, ha denunciato l’entrata di ex ribelli del M23 rifugiati in Uganda in territorio congolese: «Si nota uno spostamento di truppe che continuano ad attraversare il confine tra il distretto di Bundibugio e il territorio di Watalinga, ma anche tra il distretto di Kasese e il settore di Rwenzori. Starebbero preparando un attacco sul territorio di Watalinga».[2]

Il 16 dicembre, l’organizzazione statunitense per la difesa dei diritti umani, Human Rights Watch (HRW), ha chiesto al Tribunale Penale Internazionale di prendere in considerazione i recenti massacri commessi nel territorio  di Beni, in quanto ha giurisdizione sui gravi crimini internazionali commessi nella RDCongo. Secondo HRW, dei funzionari della Monusco hanno affermato che, varie volte, l’esercito congolese si è opposto ai tentativi dell’Onu di coordinare la protezione dei civili e che, altre volte, ha impedito alle truppe delle Nazioni Unite di effettuare dei pattugliamenti in certe aree. Secondo HRW, il governo congolese dovrebbe assicurarsi che le truppe e gli osservatori dei diritti umani delle Nazioni Unite abbiano sempre accesso immediato e senza ostacoli a tutte le zone in cui hanno avuto luogo gli attacchi, anche nelle aree in cui i civili possono essere a rischio.[3]

Il 16 dicembre, la Società civile del Nord Kivu ha annunciato l’apertura, il 17 dicembre, a Beni, di un dialogo sociale per il ripristino della pace e della sicurezza nella zona. Il seminario si è concluso il 20 dicembre con la lettura di una dichiarazione finale.

  1. All’unanimità, i partecipanti hanno constatato quanto segue:
  2. Il nemico ha chiaramente un carattere ibrido: si tratta di gruppi residuali delle ADF-NALU presenti sul territorio da più di due decenni, ma anche di cittadini locali che collaborano con esse.

Le relazioni che questo nemico è riuscito a tessere, a livello locale, sono di tipo miliziano e socio-economico, attraverso una rete di scambi d’informazioni e di transazioni mafiose transfrontaliere;
2. Il nemico è spesso riuscito a fare aderire alla sua causa criminale, comprendente anche pratiche jihadiste, certe personalità politiche, operatori economici e autorità tradizionali, il che gli ha permesso di consolidare la sua presenza sul territorio e nelle attività socio-economiche della regione. Tutto questo con una certa complicità dei paesi vicini;

  1. Indebolito dall’esercito regolare in seguito alle operazioni militari Sukola I, il nemico ha deciso di passare da una strategia di offensiva classica alla guerriglia e al terrorismo, con l’intenzione di seminare maggiore confusione ed approfittare della dispersione delle popolazioni rurali costrette a fuggire. Per quanto riguarda l’esercito nazionale e la Monusco, non sono riusciti ad adattarsi a questa nuova strategia, ciò che è andato a vantaggio del nemico.
  2. I partecipanti hanno raccomandato
  3. Al Governo congolese di:
  4. a) Istituire un sistema d’allarme rapido, adattato alla strategia operativa del nemico;
  5. b) Rafforzare i sistemi di sorveglianza all’interno delle FARDC, per smascherare gli infiltrati e i traditori che minacciano l’ordine pubblico nella città e territorio di Beni;
  6. c) Continuare in modo permanente il lavoro di identificazione del nemico, coinvolgendo le autorità del posto e la popolazione locale;
  7. d) Accelerare le indagini sui casi delle persone che, sospettate di collaborazione con il nemico, sono già arrestate. Consegnarle quindi alla giustizia, se necessario;
  8. e) Apportare una rapida assistenza agli sfollati e alle vittime dei vari massacri commessi in città e nel territorio di Beni;
  9. f) Stabilire un programma speciale per i giovani, per salvarli da ogni possibile sollecitazione e / o manipolazione da parte delle forze negative.
  10. Alla Comunità Internazionale di:

Condurre un’inchiesta internazionale sui massacri commessi recentemente nella città e nel territorio di Beni.

III. I partecipanti si sono impegnati a istituire un comitato di controllo dell’attuazione delle raccomandazioni formulate. Il comitato sarà composto da 4 membri della società civile, 2 deputati, un senatore, due membri dell’esecutivo, due capi tradizionali, 3 rappresentanti delle confessioni religiose, 2 esperti dello Starec e 1 rappresentante del ICCN.

Il 19 dicembre, il Governo di Kinshasa ha accusato il Movimento del 23 marzo (M23), dei gruppi armati Mai Mai e il partito del Raggruppamento Congolese per la Democrazia – Movimento di Liberazione (RCD-KML) di essere implicati nei massacri di Beni. Lambert Mende, portavoce del Governo, ha dichiarato che sono state arrestate già decine di persone, più di un centinaio. Secondo le sue dichiarazioni, la maggior parte delle persone in stato di arresto sono di diverse nazionalità: Tanzaniani, Ugandesi, Ruandesi e Congolesi. Questi ultimi appartengono a organizzazioni politiche: l’ex M23, i gruppi Mai-Mai e il RCD-KML di Mbusa Nyamwisi. Dunque, secondo Lambert Mende, i massacri di Beni sono stati commessi con delle complicità interne. Lo scopo di questa strategia sarebbe quello di preparare l’apparizione di un nuovo “movimento di liberazione”. Fonti locali di Beni hanno accusato anche alcune autorità militari di fare il gioco del nemico. Infatti, la Società civile locale ha chiesto di sostituire alcune autorità militari sospette.[4]

2. IL MOVIMENTO DEL 23 MARZO (M23)

Il 12 dicembre, in un comunicato stampa, Human Rights Watch (HRW) ha deplorato il fatto che, un anno dopo la firma delle dichiarazioni di Nairobi che misero termine ai colloqui tra Kinshasa e gli ex ribelli del M23, questi ultimi non siano ancora stati perseguiti in giustizia per i crimini commessi nell’est della RDCongo. Secondo HRW, i ribelli hanno commesso, nel Nord Kivu, numerosi crimini di guerra, tra cui massacri, violenze sessuali e reclutamento coatto di minorenni.

Le Dichiarazioni di Nairobi stipulano che i capi del M23 responsabili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani non hanno alcun diritto all’amnistia, ha dichiarato l’Ong, affermando che le persone responsabili tali crimini devono essere perseguiti in giustizia. Ma un anno dopo, lamenta HRW, non è stato fatto alcun progresso.

La maggior parte dei capi del M23 sono in Ruanda o in Uganda, al riparo della giustizia, nonostante che questi due paesi e la RDCongo avessero assunto l’impegno di sostenere gli sforzi regionali nel promuovere la giustizia e di non proteggere o concedere asili ad individui sospettati di essere responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, ha dichiarato che l’ONG nel suo comunicato.
«Chiediamo che i capi del M23 che sono responsabili di massacri, stupri e reclutamento forzato di minorenni vengano arrestati e portati davanti alla giustizia», ha dichiarato Ida Sawyer, ricercatrice di HRW che, per questo, ha affermato che il governo congolese dovrebbe fare tutti gli sforzi necessari per assicurarsi che i dossier sui mandati di arresto degli ex ribelli responsabili di crimini di guerra siano portati a termine e che le richieste di estradizione siano inoltrate.[5]

In una lettera aperta indirizzata al capo dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a Kampala, Bertrand Bisimwa, presidente politico del M23, ha accusato la delegazione inviata dal governo congolese in Uganda, il 6 dicembre, di essere stata incaricata di organizzare il rimpatrio forzato degli ex combattenti del M23 fuggiti in Uganda e acquartierati presso il campo militare di Bihamba.

Sentendosi accusato, il coordinatore del meccanismo nazionale di controllo dell’attuazione dell’accordo di Addis Abeba, François Muamba, ha spiegato che «torna in Congo chi è congolese e che vuole tornare in Congo. Per essere rimpatriati, è necessario volerlo, bisogna desiderarlo. Non c’è nessuno che sarà messo su un aereo con la forza. Dunque, smentisco categoricamente ogni accusa di rimpatrio forzato. Nessuno sarà rimpatriato con la forza». François Muamba ha inoltre negato a Bertrand Bisimwa, presidente dell’ala politica dell’ex movimento ribelle, la responsabilità di impegnare l’ex M23. Lo ha accusato anche di voler bloccare gli ex combattenti nell’attuale campo per motivi oscuri. Egli ha ripetuto che «nessuno pensa di ricorrere ad un rimpatrio forzato, ma agli ex-combattenti che sono congolesi, che hanno usufruito dell’amnistia e che desiderano e vogliono tornare in patria, si deve dare l’opportunità di poterlo fare, senza alcuna interferenza da parte di persone che non hanno più alcun mandato, dato che il M23 nella vecchia forma non esiste più». François Mwamba ha precisato che «il punto di partenza del rimpatrio volontario è l’amnistia. Non è stato facile». Egli ha poi spiegato il motivo del ritardo accumulato in questa operazione: «l’amnistia non è stata concessa in blocco, ma singolarmente e in forma scritta. Si è dovuto spiegarlo agli interessati e i dossier dovevano essere trattati caso per caso».[6]

Il 16 dicembre, durante un’operazione di rimpatrio volontario verso la RDCongo, un migliaio di ex combattenti del M23 sono fuggiti dal campo di Bihanga, in Uganda, mentre 120 sono stati trasferiti a Kamina, nella RDCongo. Circa 1.300 ex combattenti del M23 risiedevano nel campo Bihanga, a circa 300 km a sud ovest di Kampala, sin dalla loro sconfitta nel mese di novembre del 2013. Sin dal mattino, l’esercito ugandese aveva annunciato che «i militari del M23 saranno oggi finalmente consegnati al governo della RDC, all’aeroporto di Entebbe».

Tuttavia, l’operazione di rimpatrio si è scontrata con la resistenza di ex combattenti, alcuni dei quali sono rimasti feriti. Dei rinforzi militari sono stati inviati à Bihanga per “riportare l’ordine” e per ricercare alcuni ex ufficiali ribelli che l’esercito ugandese accusa di essere gli istigatori del rifiuto di salire a bordo dei camion messi a disposizione e che sono fuggiti. Il portavoce dell’esercito ugandese, il tenente colonnello Paddy Ankunda, ha dichiarato che «un migliaio di ex militari del M23 sono fuggiti dal campo di Bihanga, dicendo di temere per la loro sicurezza qualora fossero rimpatriati nella RDCongo».

Gli ex ribelli hanno denunciato un rimpatrio forzato tentato dal Governo della RDCongo. Da Kampala dove risiede, il presidente del M23, Bertrand Bisimwa, ha affermato:  «Questa mattina, verso le 4h00 (01h00 GMT), sono arrivati dei camion (dell’esercito ugandese) per evacuare con la forza, gli ex-combattenti del M23 alloggiati nel campo di Bihanga, ma essi si sono rifiutati di salire a bordo dei camion (…) In quel momento si sono sentiti degli spari» da parte dell’esercito ugandese, Secondo Bisimwa, «questo rimpatrio è una violazione delle norme del diritto internazionale e delle dichiarazioni firmate il 12 dicembre 2013 a Nairobi dal governo della RDCongo e dal M23». Il Presidente del M23 ha affermato che il documento di Nairobi prevede che la questione del rimpatrio degli ex membri del M23 rifugiati fuori della RDCongo sia discussa tra gli ex ribelli e le autorità di Kinshasa, il che “non è mai stato fatto”.

Il portavoce dell’esercito ugandese, Paddy Ankunda, ha smentito qualsiasi rimpatrio forzato e ha sottolineato che «nessun membro del M23 è stato costretto ad essere rimpatriato nella RDCongo».

Ha  affermato che un migliaio circa degli ex ribelli sono fuggiti all’arrivo dei camion. Secondo lui, 120 dei 330 membri del M23 già amnistiati dal governo congolese hanno accettato di rientrare nella RDCongo. Da parte sua, il portavoce del governo congolese, Lambert Mende, ha affermato che «una piccola parte del M23, che è accusata di crimini di guerra, ha fatto di tutto per far deragliare il processo di rimpatrio».

Nonostante questi incidenti, 120 ex militari del M23 hanno potuto essere rimpatriati per via aerea. Da Entebbe, François Muamba, Coordinatore del Meccanismo Nazionale di Controllo (MNS) dell’attuazione dell’accordo di Addis Abeba, ha affermato che si tratta di un rimpatrio volontario, precisando di «avere preso (con le autorità ugandesi) la decisione di accelerare il rimpatrio degli ex combattenti del M23» e sottolineando che «tutto deve essere completato prima del 25 dicembre». Entro tale data, secondo le autorità congolesi, sono circa 560 gli ex-combattenti del M23 già amnistiati che devono essere rimpatriati dall’Uganda e dal Ruanda.[7]

Il 17 dicembre, fonti dell’esercito ugandese hanno affermato che gli ex combattenti del M23 che sono fuggiti dal campo di Bihanga si trovano nei pressi del campo dei rifugiati di Rwamwanja gestito dall’UNHCR e che 35 sono già ritornati al campo di Bihanga. Il campo di Rwamwanja ospita circa 50.000 rifugiati congolesi, fuggiti dal Kivu nel 2012 a causa dei combattimenti tra il M23 e l’esercito congolese. Circa la presenza degli ex ribelli presso il campo di Rwamwanja, Lucy Claire Becky, responsabile della comunicazione dell’Ufficio dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in Uganda, ha detto in una e-mail che, «non avendo gli ex combattenti del M23 lo status di rifugiati (…) l’UNHCR non si occupa della questione».[8]

Mentre lasciavano il campo di Bihamba e si dirigevano verso il campo dei rifugiati congolesi di Rwamanja, degli ex ribelli del M23 hanno saccheggiato delle case private, rubando cibo, cellulari e altri beni. Erano tra i 600 e 900. Le autorità ugandesi hanno deplorato tali atti di vandalismo e l’esercito ugandese è riuscito a prendere il controllo sulla situazione.[9]

Secondo un testimone, nel campo dei rifugiati di Rwamanza sono arrivati 1200 membri dell’ex M23 che vogliono chiedere asilo in Uganda. 100 altri ex M23 si trovano presso il campo militare di Bihanga, a Mbarara, per aver rifiutato di essere rimpatriati nella RDCongo e 50 ex ufficiali del M23 vivono a Kampala, capitale dell’Uganda.[10]

Il 18 dicembre, secondo l’esercito ugandese, più di 600 ex-combattenti del M23 hanno lasciato il campo di Rwamwanja e sono ritornati al loro campo di Bihanga. Vi sono stati trasportati a bordo di veicoli militari. Secondo il ministro incaricato dei rifugiati, Musa Ecweru, non era possibile accettarli nel campo di Rwamwanja, perché non sono ancora stati disarmati e smobilitati. Tanto più che i rifugiati congolesi del campo di Rwamwanja sono esattamente quelli che, nel 2012, avevano dovuto fuggire a causa dei combattimenti tra il M23 e l’esercito congolese. Per quanto riguarda gli ex ribelli ancora mancanti – almeno 700 – avrebbero continuato a convergere lentamente verso Rwamwanja. Secondo Paddy Ankunda, portavoce dell’esercito ugandese, non è quindi necessario andare a cercarli, perché saranno poi ricondotti poco a poco al loro campo militare di Bihanga.[11]

Il 18 dicembre, il coordinatore del Meccanismo Nazionale di Controllo (MNS) dell’attuazione dell’accordo quadro di Addis Abeba, Francois Muamba, ha accusato il punto focale dell’ex M23, René Abandi, di bloccare l’attuazione delle dichiarazioni di Nairobi, ostacolando il processo di rimpatrio degli ex ribelli rifugiati in Uganda e in Ruanda. François Muamba l’ha dichiarato in una conferenza stampa a Kinshasa, di ritorno da Entebbe, in Uganda.

Secondo il coordinatore del MNS, alcuni capi del gruppo stanno manipolando quelli che sono candidati al rimpatrio volontario, creando l’illusione di un esilio dorato in Canada per coloro che si trovassero ancora sul territorio ugandese dopo il 12 dicembre, data del primo anniversario della dichiarazione di Nairobi. Le stesse autorità ugandesi sono sospettate di avere favorito questa illusione, quando hanno minacciato di concedere lo statuto di rifugiati politici ai membri dell’M23 che si trovassero ancora in Uganda dopo il 12 dicembre.

Degli undici punti contenuti nelle dichiarazioni di Nairobi, che hanno sancito la fine dei colloqui di Kampala tra il governo congolese e il M23, solo due sono stati realizzati: la fine della guerra e la promulgazione della legge di amnistia per fatti di insurrezione, fatti di guerra e infrazioni politiche commessi tra il 1° gennaio 2006 e il 20 dicembre 2013. Gli altri punti non sono ancora stati realizzati. François Muamba ne getta la responsabilità sugli ex ribelli e, in particolare, su René Abandi, punto focale del M23, per non essersi presentati agli incontri del MNS per l’attuazione delle dichiarazioni di Nairobi.

È opportuno ricordare che, anche se il governo congolese e il M23 avevano firmato separatamente, il 12 dicembre 2013 a Nairobi, due dichiarazioni diverse l’una dall’atra, le due messe insieme però coprono undici punti negoziati e concordati tra le due parti: 1. la fine della ribellione, 2. la promulgazione di una legge sull’amnistia, 3. le disposizione transitorie di sicurezza, 4. la liberazione dei prigionieri, 5. la trasformazione del M23 in partito politico, 6. il ritorno e il reinserimento dei rifugiati esterni, 7. il ritorno e il reinserimento degli sfollati interni, 8. la riconciliazione nazionale e la giustizia, 9. il meccanismo di monitoraggio dell’attuazione delle dichiarazioni 10. la governance e le riforme socio-economiche, 11. la smobilitazione e la reintegrazione degli ex combattenti del M23.[12]

Il 18 dicembre, l’ala “Campo della Patria” dell’ex M23 ha dichiarato che «il rimpatrio di tutti i fratelli (civili e militari) che vivono in Uganda e in Ruanda è un imperativo che non deve tollerare alcuna manipolazione». L’ha affermato in una dichiarazione politica firmata a Goma (Nord Kivu), dal Segretario Permanente del Comitato Politico, Kambasu Ngeve (capo negoziatore ai colloqui di Kampala), e dal capo del Dipartimento per gli affari politici, Sendugu Museveni (relatore generale della delegazione del M23). Il Campo della Patria accusa Bertrand Bisimwa di «minare gli sforzi della Comunità Internazionale, dell’Unione Africana, della SADC, della CIRGL, del governo della RDC e del presidente ugandese Yoweri Kaguta Museveni, intrapresi per una pace duratura nella RDCongo e nella Regione dei Grandi Laghi», aggiungendo che «le sue ultime lettere all’UNHCR / UGANDA e al Presidente della CIRGL, su un rimpatrio forzato degli ex combattenti del M23, non sono che l’espressione di una deliberata intenzione di violare le dichiarazioni di Nairobi, secondo le quali il M23 aveva liberamente accettato di consegnare i suoi combattenti al governo della RDCongo, in vista del loro rimpatrio». Il Campo della Patria ricorda, sia all’opinione nazionale che internazionale, che «il rimpatrio degli ex combattenti è un impegno cui il M23 aveva sottoscritto in occasione delle dichiarazioni di Nairobi».[13]

Un anno dopo la firma delle dichiarazioni di Nairobi da parte del governo congolese e del M23, nulla sembra essere ancora risolto tra le due parti. Degli undici punti discussi, solo due sono stati realizzati: la fine della ribellione e la promulgazione della legge di amnistia (per altro contestata dagli ex ribelli). Per quanto riguarda la liberazione dei prigionieri, la trasformazione del M23 in partito politico, il ritorno dei rifugiati, la smobilitazione e il reinserimento degli ex ribelli, quasi nulla è stato fatto. Il Governo e il M23 si accusano a vicenda di essere la causa dello stallo.
Né Bertrand Bisimwa, capo politico del M23, né Sultani Makenga, comandante militare del movimento, non figurano nella lista degli amnistiati. Una decisione presa da Kinshasa che si riserva il diritto di rifiutare l’amnistia a quelli che hanno commesso crimini gravi. Secondo il M23, è una decisione che “viola le stesse dichiarazioni”, in cui si afferma che «solo l’accettazione e la firma dell’atto d’impegno da parte del richiedente sono sufficienti per esserne beneficiario e il governo dovrebbe limitarsi a prenderne atto». In realtà, le dichiarazioni di Nairobi parlano di “fatti di insurrezione, fatti di guerra e infrazioni politiche”, del tutto diversi dai “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” che, essendo dei crimini imprescrittibili, non possono essere oggetto di amnistia.

Non potrà dunque usufruire dell’amnistia chi è accusato di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.

Se il governo ammette dei ritardi, tuttavia si è fissato due linee rosse difficili da accettare da parte degli ex ribelli: un’amnistia selettiva e la non integrazione del M23 nell’esercito congolese. Per quanto riguarda l’amnistia, Kinshasa rifiuta di concederla ai principali leader del movimento: militari, come Sultani Makenga o civili, come Bertrand Bisimwa. Due ragioni per questo: il governo non vuole più reintegrare degli ex ribelli nell’esercito nazionale e vuole mettere fine a una certa “impunità” sul piano politico. Tuttavia, non concedendo l’amnistia ai “pezzi grossi” del M23 (politici e militari), il rischio è di dare un pretesto per una nuova ribellione. Senza trasformazione del M23 in partito politico congolese, il rischio è di mantenere la protesta al di fuori del contesto politico e di vedere gli ex ribelli riprendere le armi. Autorizzando la mutazione del M23 in una forza politica, Kinshasa potrebbe anche guadagnarci, perché tale decisione permetterebbe al governo di vedere quanto effettivamente le idee del M23 influiscono sulla società congolese nel suo insieme e non solo nell’est del Paese. Il fallimento politico del RCD (antenato del M23) nelle elezioni presidenziali del 2006 (una clamorosa sconfitta), dimostra che Kinshasa rischierebbe poco nell’accogliere la richiesta del M23 di trasformarsi in partito politico.[14]

3. I MAI MAI

Il 17 novembre, sono ripresi degli scontri tra i Raia Mutomboki di Kikuni e quelli di Mbongolo Kikwama. Da un mese, si disputano il controllo della concessione mineraria abbandonata dalla Mining Company Kivu (Sominki), nella di località Lukala, nel territorio di Shabunda (Sud Kivu). Gli scontri tra le due fazioni della milizia Raia Mutomboki hanno costretto molte persone a lasciare la zona, per cercare rifugio in comunità più lontane.[15]

Il 21 novembre, nel corso di un’intervista con la stampa locale, Shabwira Kizito, capo del raggruppamento di Ziralo), ha accusato i Mai Mai Kiricho, Kifuafua e Raia Mutomboki di commettere molti abusi contro la popolazione civile. Questo raggruppamento si trova a nord-ovest di Bukavu (Sud Kivu). Secondo il capo locale, questi miliziani erigono dei posti di blocco illegali all’entrata dei mercati e sui sentieri di campagna. Kizito Shabwira afferma che, ad ogni passante, esigono il pagamento di 500 franchi congolesi (0,54 dollari). Secondo la stessa fonte, i commercianti sono costretti a pagare 1.000 franchi congolesi (1,08 dollari) e ciò in proporzione alla qualità dei loro prodotti commerciali. L’autorità locale di Ziralo ha chiesto il dispiegamento delle FARDC, per garantire la sicurezza dei residenti e delle loro proprietà. Un altro funzionario di Ziralo, Melchior Nsengo Witanene, accusa questi  miliziani anche di furti commessi nelle case della gente: «Rubano denaro, bestiame o altri oggetti di valore e subito si ritirano nella foresta. Qualsiasi tentativo di resistenza a queste aggressioni è punito a colpi di frusta».[16]

Il 25 novembre, il colonnello Jean-Jacques Disesa ha affermato che il reggimento militare 1010 ha sloggiato, negli ultimi giorni, i Raia Mutomboki dalle località di Kaligila, Mintoko, Kamangu, Mumbani, Kabulungu e Tshonka, nel territorio di Shabunda, a 350 km a sud di Bukavu (Sud Kivu). Questa zona è stata a lungo rimasta sotto l’occupazione di Raia Mutomboki, ha detto il colonnello Jean-Jacques Disesa. I miliziani cacciati dalla zona liberata si sarebbero ritirati verso la località di Lulingu. Il comandante del Reggimento 1010 ha invitato i gruppi armati a uscire dalla foresta per consegnarsi alle FARDC, in vista del processo di DDR. Per il colonnello Jean-Jacques Disesa, il tempo della guerra è finito. Varie centinaia di persone sono fuggite, dallo scorso ottobre, dalle loro località di Shabunda (Sud Kivu) a causa degli scontri ricorrenti tra l’esercito e le milizie Raia Mutomboki.[17]

Dal 28 novembre, violenti scontri tra gruppi di Raia Mutomboki e militari del reggimento 2002 delle FARDC sono stati segnalati nei villaggi di Nyalubemba, Busolo e nei villaggi circostanti, nel territorio di Walungu (Sud Kivu). La società civile avanza un bilancio, non ancora confermato da fonti militari, 17 miliziani sono stati catturati e sette feriti. Secondo fonti militari, tutti questi villaggi sono passati sotto il controllo delle FARDC che stanno avanzando verso altri. La popolazione di questi villaggi è fuggita, dirigendosi verso i raggruppamenti di Mulamba e di Luntukulu.[18]

Il 17 dicembre, fonti della società civile hanno affermato che nove persone sono morte negli ultimi  scontri tra due fazioni dei Raia Mutomboki, quella di Ntoto e quella di Nsindo, in territorio di Walikale (Nord Kivu). Secondo il presidente dei giovani di Walikale, Benjamin Mushunganya, «è un problema di approvvigionamento alimentare” che è alla base del conflitto tra le due fazioni. Egli ha anche spiegato che la fazione dei Raia Mutomboki di Ntoto si è coalizzata con i Mai-Mai FDC-Guide e che la fazione dei Mai Mai di Nsindo collabora con alcune milizie dei Mai-Mai Kifuafua.A causa di questa situazione, gli abitanti di quattro villaggi: Ntoto, Byamba, Mwanga e Nsindo, del raggruppamento di Waloa-Uroba, a circa 90 km a est della città di Walikale, sono fuggiti e hanno cercato rifugio nei vicini villaggi di Mera e Mutara, nello stesso raggruppamento di Waloa-Uroba. La società civile chiede il dispiegamento delle FARDC in questa zona, diventata roccaforte delle varie milizie Mai Mai, in seguito al ritiro della Monusco da Ntoto da quasi due anni.[19]

Otto località sono attualmente occupate da gruppi di miliziani che operano nei raggruppamenti di Ufamandu e di Nyamaboko nel sud territorio di Masisi (Nord Kivu). Secondo fonti della polizia e della società civile, le milizie hanno approfittato della partenza dell’esercito nazionale da queste zone, per prendere possesso di queste località. È dal 17 dicembre che i militari dell’806°  reggimento dell’esercito, dispiegato a Remeka, nel raggruppamento di Ufamandu 1 e a Luke, si sono ritirati dalla zona, per ordine della loro gerarchia. Per ragioni operative, affermano fonti militari a Masisi. Approfittando del vuoto lasciato dalle forze di sicurezza, le milizie Mai Mai Kifuafua e Raia Mutomboki hanno occupato tutta la parte meridionale di Ufamandu 1, mentre i Nyatura hanno occupato il nord di Ufamandu 1 e la località di Ngululu, nel raggruppamento adiacente di Nyamaboko 1.[20]

4. IL PROGRAMMA DI DISARMO E REINSERIMENTO (DDR)

Il 6 dicembre, il meccanismo di monitoraggio nazionale dell’applicazione dell’accordo di Addis Abeba, ha dichiarato che, per il 2015, l’Assemblea Nazionale ha ridotto della metà il finanziamento proposto dal governo per il programma di smobilitazione, disarmo e reintegrazione (DDR) degli ex combattenti. Pertanto, egli teme che anche le previsioni di finanziamento da parte dei partner internazionali possano, nel 2015, essere riviste al ribasso. Egli ha quindi chiesto al Parlamento di riaggiustare le cifre. Per il 2015, per il processo di DDR, il governo congolese aveva proposto 10 miliardi di franchi congolesi, quasi 11 milioni di dollari. Ma l’Assemblea Nazionale ha deciso di ridurre il montante a 5 miliardi di FC.

Il coordinatore del meccanismo di controllo nazionale, François Muamba, ha affermato che l’importo proposto dal governo corrispondeva alla quota che la RDCongo si era impegnata a fornire e ha precisato che «le previsioni finanziarie del DDR ammontano a 85 milioni di $ in quattro anni. Il governo si era impegnato per 10 milioni all’anno. Per il 2014, il governo li ha sbloccati. Ma per il 2015, occorre rettificare ciò che è stato deciso dall’Assemblea Nazionale».

François Muamba ha detto di essere in contatto con la segreteria del Senato per cercare di risolvere la questione. Per François Muamba, se il processo di DDR non sarà ben finanziato, non potrà svolgersi correttamente e ciò potrebbe dare un pretesto ai gruppi armati, agli ex-M23 e ai Paesi limitrofi che li ospitano, per dire che il governo congolese è in mala fede e, quindi, per boicottare il DDR, ciò che deve essere evitato a tutti i costi.[21]

5. MAI-MAI DISPOSTI AD ESSERE SMOBILITATI

a. Provincia Orientale

Il 21 novembre, Banaloki Matata, alias Cobra Matata, capo delle Forze di Resistenza Patriottica dell’Ituri (FRPI), si è arreso con i suoi uomini e i loro familiari alle Forze Armate della RDCongo (FARDC), a Bunia, capoluogo dell’Ituri (Provincia Orientale). Cobra Matata aveva assunto il comando delle Forze di Resistenza Patriottica dell’Ituri (FRPI) nel 2010, dopo aver disertato dalle FARDC. In occasione della sua resa, è stata organizzata una cerimonia ufficiale in cui era presente anche il governatore provinciale, Jean Bamanisa Saidi, che ha affermato che si sta attendendo che gli uomini di Cobra Matata e i loro familiari arrivino in un campo di transito preparato per questo scopo. Dopo la cerimonia, Jean Bamanisa gli ha concesso un’udienza, al termine della quale Cobra Matata ha espresso la volontà di essere integrato nell’esercito nazionale.

«Egli si è arreso insieme ad altri tre dei suoi ufficiali di stato maggiore. Lui è Generale e gli altri tre colonnelli», ha detto Monulphe Bosso, portavoce del governatore della Provincia Orientale, aggiungendo che il capo di stato maggiore e altri cinque ufficiali li avevano preceduti il giorno precedente. Alla domanda sul numero di armi consegnate dagli ex miliziani, il portavoce ha detto che  «tutti sono venuti a mani vuote». Egli ha sottolineato che si sta ancora attendendo che altri 418 miliziani aderiscano al processo di disarmo. Essi sarebbero accompagnati da 394 familiari (donne e bambini). Attualmente, sono raggruppati a Aveba, nella zona di Walendu Bindi, dove sono a carico del governo congolese. Secondo il portavoce, prima di arrendersi, Cobra Matata aveva ribadito le sue due richieste principali: che si conceda un’amnistia generale per lui e le sue truppe e che si riconoscano i gradi militari di cui i suoi uomini hanno beneficiato nel gruppo armato. Il portavoce a precisato che sta alle alte sfere militari decidere come rispondervi, il che lascia pensare che Cobra Matata non avrebbe ancora ricevuto alcuna risposta circa le sue rivendicazioni.

In passato, molti gruppi armati avevano abbandonato la lotta armata per essere poi integrati nelle FARDC. Ai capi si riconoscevano i loro gradi di ufficiali superiori o di generali ma, secondo la riforma della legge del 2011 sull’esercito, ciò non sarebbe più possibile.

Ripetute volte, Cobra Matata aveva annunciato la sua resa. Ma tutti i tentativi fatti affinché si arrendesse erano falliti. Le FRPI sono una delle tante milizie attive in Ituri dal 1999 al 2007, su basi essenzialmente etniche per l’accaparramento delle risorse naturali (in primo luogo l’oro) del distretto. Diverse migliaia di combattenti delle FRPI erano stati smobilitati e integrati nell’esercito congolese dal 2004 al 2006, ma il gruppo aveva cominciato a riorganizzarsi alla fine del 2007.[22]

Il 26 novembre, i miliziani delle FRPI raggruppati ad Aveba, in Ituri, hanno rifiutato di recarsi a Bunia, dove li si aspettava nel quadro del processo del loro disarmo. Un primo gruppo di circa trenta miliziani, che dovevano salire a bordo di tre camion inviati dal governo, non l’ha fatto per ordine di alcuni ufficiali delle FRPI sul posto. Era presente una delegazione di autorità del Governo e della Monusco. Circa trentasei miliziani erano pronti per raggiungere Bunia. Ma più di trecento miliziani armati si aggiravano nei dintorni del gruppo, impedendo la loro partenza.

Il Vice Commissario del distretto dell’Ituri, Fataki Androma, che guidava la delegazione governativa, si pronuncia sul fallimento dell’operazione: «Per facilitare l’operazione, avevamo portato un po’ di soldi per loro: 7.500 dollari. Purtroppo, dopo la trattativa e con nostra sorpresa, uno degli ufficiali [FRPI] ha preso la pistola di una sua guardia del corpo, il che ha fatto fuggire la popolazione». Ogni miliziano doveva ricevere 50 $ e ogni ufficiale 100 $, come avevano chiesto. Il fallimento dell’operazione crea una nuova desolazione tra la popolazione di Aveba. Il presidente della società civile di Gety, Jean de Dieu Mbafele, si è detto preoccupato: «La gente è molto preoccupata, perché è la seconda volta che si tenta di trattare il disarmo dei miliziani delle FRPI. Non si rischia di trovarsi ancora davanti a brutte sorprese?».[23]

Il 27 novembre, in serata, ventotto miliziani delle FRPI di Cobra Matata sono finalmente arrivati a Bunia, provenienti da Aveba. Avevano sei armi personali e un’arma pesante. Appena arrivati, questi miliziani sono stati trasferiti al centro di raggruppamento di Rwampara, alla periferia di Bunia. La società civile d’Irumu esprime la propria delusione per il numero ridotto di miliziani che si sono arresi e rimane scettica sull’esito finale dell’operazione. Secondo il presidente Gyli Gotabo, 28 miliziani rappresentano una goccia nel mare, dato il grande numero (forse più di 2.000) dei miliziani delle FRPI di Cobra Matata.[24]

Il 4 dicembre, il capo della zona di Walendu Bindi, Olivier Peke Kaliaki, ha criticato le reticenze dei miliziani delle FRPI raggruppati da un mese ad Aveba, per consegnarsi all’esercito nazionale (FARDC). Il capo di Walendu Bindi ritiene che tale lentezza sia dovuta all’assenza di Justin Banaloki Cobra Matata nel sito di Aveba. In effetti, questi miliziani sarebbero riluttanti a presentarsi all’esercito, perché si è sparsa la voce che Cobra Matata sia stato arrestato. In una conferenza stampa a Bunia, l’autorità locale ha consigliato all’esercito di autorizzare il capo della milizia, Justin Banaloki Cobra, a recarsi ad Aveba, per incoraggiare i suoi uomini ad arrendersi all’esercito. Ad Aveba, sono raggruppati circa 1.000 miliziani. Solo 70 sono già a Bunia.[25]

b. Sud Kivu

Il 7 novembre, il comandante del gruppo dei Mai Mai Kifuafua, il colonnello Matunguru Katamasyoko, ha chiesto al governo e alla Monusco di intraprendere la smobilitazione dei 1.500 membri del suo gruppo, usciti dalla foresta da 10 giorni. Questa milizia è operativa nei raggruppamenti di Ziralo (sud Kivu) e di Ufamandu 1° e 2° (Nord Kivu). Secondo il colonnello Matunguru, questi ex miliziani vivono in condizioni preoccupanti, senza alcun accesso alle cure sanitarie a causa della presenza delle FARDC in questi due raggruppamenti. Per mangiare, ha dichiarato, alcuni sono costretti ad invadere i campi degli abitanti, altri erigono dei posti di blocco sulla strada per esigere un contributo illegale. Il Colonnello Matunguru si è rammaricato del ritardo con cui si procede alla loro smobilitazione e ha chiesto alla Monusco e alla gerarchia dell’esercito di procedere immediatamente all’identificazione e all’orientamento dei suoi uomini.[26]

Il 6 dicembre, Juriste Kikuni, capo di una fazione dei Mai Mai Raia Mutomboki, ha affermato che la resa dei combattenti del suo gruppo è ormai una realtà. L’ha detto in un incontro con il governatore del Sud Kivu, Marcelin Cishambo, cui hanno partecipato anche dei rappresentanti della Monusco. A capo di duemila uomini, ha dichiarato di avere accettato di deporre le armi per aderire al processo di pace. Kikuni è arrivato a Bukavu con una piccola delegazione di dieci persone, ex-combattenti della milizia. Si è arreso alla Monusco con 163 uomini, 26 armi e 52 caricatori pieni di munizioni. Juriste Kikuni ha detto di essersi recato a Bukavu per aderire al processo di DDRR (smobilitazione, disarmo, reintegrazione e reinserimento). Kikuni è capo di una fazione dei Raia Mutomboki che opera nel territorio di Shabunda, a partire dalla località di Lulingu. Egli ha precisato di avere delle truppe anche nel Nord Kivu, precisamente a Isangi e a Pango, e nel Sud Kivu (a Kalonge e a Bunyakiri).[27]

[1] Cf AFP – Africatime, 15.12.’14

[2] Cf Radio Okapi, 16.12.’14

[3] Cf AFP – Africatime, 16.12.’14

[4] Cf RFI, 20.12.’14

[5] Cf Radio Okapi, 12.12.’14

[6] Cf Radio Okapi, 15.12.’14; Radio Kivu 1, 22.12.’14

[7] Cf AFP-Africatime, 16 et17.12.’14 ; Radio Okapi, 17.12.’14 ; RFI, 17.12.’14

[8] Cf AFP – Belga – Kampala, 18/12/2014 (via mediacongo.net)

[9] Cf 7sur7.cd – Kinshasa, 18.12.’14

[10] Cf Radio Kivu 1, 22.12.’14

[11] Cf RFI, 19.12.’14

[12] Cf Radio Okapi, 18.12.’14

[13] Cf Le Potentiel – Kinshasa, 23.12.’14

[14] Cf Christophe Rigaud – Afrikarabia – Africatime, 15.12.’14

[15] Cf Radio Okapi, 18.11.’14

[16] Cf Radio Okapi, 22.11.’14

[17] Cf Radio Okapi, 26.11.’14

[18] Cf Radio Okapi, 01.12.’14

[19] Cf Radio Okapi, 17.12.’14

[20] Cf Radio Okapi, 23.12.’14

[21] Cf Radio Okapi, 06,12,’14

[22] Cf Radio Okapi, 22.11.’14; AFP – Africatime, 22.11.’14

[23] Cf Radio Okapi, 27.11.’14

[24] Cf Radio Okapi, 28.11.’14

[25] Cf Radio Okapi, 06.12.’14

[26] Cf Radio Okapi, 08.11.’14

[27] Cf Radio Okapi, 07.12.’14