Congo Attualità n. 181

INDICE

EDITORIALE: Occupazione, resistenza e speranza

1. LA REINTEGRAZIONE DI 450 MILITARI DELL’M23, ALA BOSCO NTAGANDA, NELL’M23 DI SULTANI MAKENGA

2. L’M23 E IL PROSSIMO DISPIEGAMENTO DELLA NUOVA BRIGATA DELLA MONUSCO

3. LE TRATTATIVE DI KAMPALA

4. LA RDCONGO DICE NO AD UN ACCORDO SULLO STATUTO DEI RIFUGIATI RUANDESI

 

EDITORIALE: Occupazione, resistenza e speranza

1. LA REINTEGRAZIONE DI 450 MILITARI DELL’M23, ALA BOSCO NTAGANDA, NELL’M23 DI SULTANI MAKENGA

Il 17 aprile, la fazione del Movimento del 23 marzo (M23) guidata da Sultani Makenga ha annunciato la reintegrazione di circa 450 combattenti appartenenti alla fazione guidata da Bosco Ntaganda che, sconfitta in marzo, si era rifugiata in Ruanda. «150 si sono arresi e circa 300 sono stati catturati a Kibumba [nei pressi della frontiera con il Ruanda]. Li abbiamo reintegrati nelle nostre brigate», ha detto Vianney Kazarama, portavoce militare della fazione Sultani Makenga. «Circa 500 militari (dell’M23 che erano fuggiti in Ruanda) erano rientrati nella RDCongo il 3 aprile e c’è stata una cerimonia per sancire il loro ritorno / riconciliazione», ha affermato, da parte sua, il direttore di International Crisis Group (ICG) per l’Africa centrale, Thierry Vircoulon. La reintegrazione di questi 450 combattenti è avvenuta proprio quando l’M23 sta moltiplicando le minacce contro il prossimo invio della brigata di intervento della Monusco.[1]

L’improvviso e quasi ufficiale ritorno dei 450 combattenti dell’M23, ala Bosco Ntaganda, intriga la classe politica congolese. «Come mai questi combattenti che, dopo essere stati sconfitti, erano fuggiti in Ruanda, disarmati e trasferiti a più di 100 km dal confine con la RDCongo, sono stati in grado di varcare di nuovo la frontiera senza essere segnalati dai servizi segreti ed esserne impediti dai servizi di sicurezza (esercito, polizia)? Dove hanno trovato le nuove armi che hanno portato a Bunagana?», si è chiesto un membro della maggioranza presidenziale a Kinshasa, che ha chiesto l’anonimato. «Mi interrogo, ancora una volta, sul ruolo del Ruanda, che né ha segnalato la fuga di questi combattenti che erano sotto la sua responsabilità, né informato le autorità congolesi della loro scomparsa. Qual è il ruolo delle autorità degli undici Paesi, tra cui il Ruanda, che hanno firmato gli accordi di Addis Abeba che vietano a questi paesi di appoggiare i gruppi armati attivi nell’est della  RDCongo, compreso l’M23?», ha continuato il deputato congolese, che ha aggiunto: «questo ritorno nasconde molte cose che il governo congolese e la Monusco dovrebbero scoprire», tanto più che esso avviene proprio quando l’M23 ha moltiplicato le minacce contro la brigata di intervento della Monusco, il cui dispiegamento è stato deciso dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per disarmare i gruppi armati attivi nell’est della RDCongo.[2]

Il 18 aprile, in un comunicato, la direzione del Movimento del 23 marzo (M23) smentisce di avere reintegrato nei suoi ranghi 450 combattenti della fazione avversa fuggiti in Ruanda dopo la scissione della ribellione in marzo. Un dispaccio dell’AFP aveva diffuso l’informazione di tale reintegrazione, citando il portavoce militare dell’M23, Vianney Kazarama, e un esperto dell’International Crisis Group (ICG) per l’Africa Centrale, Thierry Vircoulon. Ma secondo l’M23, le dichiarazioni del suo portavoce sono state “deliberatamente estrapolate dal contesto cronologico”. «Più di 450 soldati che combattevano a fianco del trio Bosco Ntaganda, Baudouin Ngaruye e Jean-Marie Runiga erano effettivamente stati arrestati o si erano arresi», indica il comunicato dell’M23, aggiungendo: «Ma gli eventi hanno avuto luogo durante gli scontri, cioè tra il 1° e il 15 marzo 2013. Non si tratta quindi di militari rientrati dal Ruanda, fuggiti in Ruanda il 16 marzo 2013». L’M23 smentisce anche di aver tenuto una cerimonia di “ritorno / riconciliazione” di cui parla Thierry Vircoulon, aggiungendo che «quelli che si erano arresi erano stati riassegnati alle loro unità militari di origine e quelli che erano stai catturati erano stati posti sotto arresto».[3]

2. L’M23 E IL PROSSIMO DISPIEGAMENTO DELLA NUOVA BRIGATA DELLA MONUSCO

Il 12 aprile, il portavoce militare del Movimento del 23 marzo (M23), Vianney Kazarama, ha dichiarato che, se attaccato dalla futura brigata di intervento della Monusco, il suo movimento si riserva il “diritto di difendersi e di reagire”. «Il governo di Kinshasa e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite saranno responsabili di tutte le conseguenze catastrofiche  che deriveranno dal dispiegamento della nuova brigata di intervento della Monusco», ha affermato.[4]

Il 15 aprile, il ministro degli Esteri del Ruanda, Louise Mushikiwabo, ha dichiarato che la brigata di intervento che l’ONU invierà nell’est della RDCongo potrà avere un ruolo “deterrente”, ma ciò che è più importante è il processo politico. «Non crediamo che l’azione militare sia la soluzione ai problemi dell’est della RDCongo. Quindi consideriamo questa brigata come un possibile deterrente, una presenza necessaria, ma deve essere integrata da altre iniziative, principalmente sull’aspetto politico del conflitto», ha detto alla stampa Louise Mushikiwabo, dopo avere presieduto una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla prevenzione dei conflitti in Africa.[5]

Il 17 aprile, durante la conferenza stampa settimanale delle Nazioni Unite, il portavoce militare della Monusco, il tenente colonnello Felix Prosper Basse, ha dichiarato che «le minacce [da parte del M23], anche se meritano attenzione, non perturbano i preparativi del dispiegamento della brigata di intervento». Ha anche affermato che i ribelli continuano, senza un reale successo, a sensibilizzare le popolazioni civili dei territori da essi occupati, contro il dispiegamento di tale forza. Il giorno precedente, il generale Babacar Gaye, consulente militare del Segretario Generale delle Nazioni Unite, aveva affermato che «il dispiegamento della brigata di intervento della Monusco è imminente», senza tuttavia specificare una data. «La sede dello stato maggiore della brigata sarà Goma. In generale, i vari battaglioni saranno concentrati in prossimità di Goma, punto di partenza per le loro varie operazioni, incluse azioni di natura coercitiva», aveva dichiarato Babacar Gaye.[6]

Il 25 aprile, il Vice-Presidente della società civile del Nord Kivu, Omar Kavota, ha accusato l’M23 di essersi ridi spiegato, nei giorni precedenti, in diversi villaggi e cittadine di Rutshuru e Beni, nel Nord Kivu. Egli ha anche invitato le Nazioni Unite ad accelerare il dispiegamento della Brigata di intervento, al fine di evitare spiacevoli sorprese da parte dell’M23.[7]

Secondo le Nazioni Unite, l’arrivo della brigata speciale di intervento sarebbe ormai “imminente”. Il comandante di tale forza, il tanzaniano James Mwakibolwa, si trova già a Goma dal 23 aprile e, dei 3.000 militari attesi per il Kivu, circa 800 sarebbero già sul posto. L’ONU annuncia l’arrivo di altre truppe, dal Malawi e dalla Tanzania, per il mese di luglio.

Circa l’efficacia della brigata di intervento dell’ONU, la RDCongo si aspetta molto. Forse anche un po’ troppo. Secondo il portavoce del governo, il dispiegamento di questi super “caschi blu” dovrebbe “porre fine alla guerra”. Anche se accoglie con sollievo il suo arrivo, l’opposizione manifesta tuttavia qualche dubbio sulla sua reale efficacia. «Si tratta certamente di una soluzione, ma a breve termine», ha dichiarato Juvénal Munubo Mubi, deputato della UNC. «Se la brigata delle Nazioni Unite può temporaneamente incutere paura ai gruppi armati, la soluzione a lungo termine richiede una profonda riforma del settore della sicurezza e la ricostruzione dell’esercito nazionale», afferma il deputato. E il compito è arduo. Mal pagato, completamente disorganizzato, trasformato in un esercito fantasma, le forze armate congolesi (FARDC) non sono ormai che l’ombra di se stesse.

Da parte di alcuni esperti internazionali, lo scetticismo è più evidente. Secondo Thierry Vircoulon, direttore di International Crisis Group (ICG) per l’Africa Centrale, il mandato di questa brigata è “troppo vasto”. «Il mandato della nuova brigata si estende a tutti i gruppi armati, ma sarà molto difficile disarmarli tutti contemporaneamente, a causa del loro numero elevato», ha dichiarato il ricercatore. Secondo lui, l’ONU dovrà stabilire delle priorità nella “sequenza delle sue operazioni” e si pone la domanda: “quale sarà il primo obiettivo della brigata? L’M23 o le FDLR?”.
Thierry Vircoulon ha anche messo in dubbio l’efficacia di un tale brigata sul terreno, di fronte alle truppe ben organizzate ed equipaggiate dell’M23 che conosce altrettanto bene il territorio o di fronte ad altri gruppi armati poco strutturati, come i Mai-Mai e le FDLR, che hanno adottato una strategia di guerriglia.

Un altro rischio evidenziato dal ricercatore è quello molto frequente della “vera-falsa reintegrazione dei ribelli nell’esercito regolare”: «Facendo pressione sui gruppi armati, alcuni possono anche decidere di deporre le armi e di chiedere di essere rapidamente reintegrati nell’esercito nazionale, senza alcun processo di identificazione e di formazione, aprendo così la strada a future diserzioni».

Ultimo rischio sollevato dall’esperto di ICG: “i danni collaterali sulle popolazioni civili”. Un esperto militare, conoscitore della situazione della RDCongo, conferma il rischio di passare da una “guerra fredda” di “bassa intensità” a una guerra “calda” e, quindi, più letale del conflitto in corso. Secondo l’esperto militare, «i civili sarebbero le prime vittime della ripresa dei combattimenti che sarebbero, inevitabilmente, più violenti».

Infine, l’M23 ha presentato l’arrivo della brigata di intervento come “una dichiarazione di guerra da parte delle Nazioni Unite” e ha annunciato: «Siamo convinti che il confronto militare potrebbe provocare una guerra regionale e trascinare in una guerra inutile anche l’Uganda, il Ruanda, la Tanzania e il Sud Africa».

Secondo diversi osservatori, la soluzione finale sarebbe di tipo politico e dipenderebbe sia da Kinshasa, che dovrebbe cambiare il suo modo di governare per potere finalmente ristabilire la sua autorità anche nell’est del Paese, sia da Kigali che, accusato di appoggiare i ribelli dell’M23, dovrebbe ritirare tale appoggio per facilitare la fine della nel Kivu.[8]

La strategia bellicista dell’M23.

Per riuscire ad imporre le sue pretese, l’M23 (creato in giugno 2012) non ha altro metodo che la strategia bellicista, applicata dall’AFDL (1996), dal RCD/Goma (1998) e dal CNDP, con il colonnello Jules Mutebusi nel 2004, a Bukavu (Sud Kivu) e il generale Laurent Nkunda nel Nord Kivu, alla fine del 2006. Così, ogni volta che si sente in pericolo o minacciato, l’M23 ricorre alla via militare come mezzo per fare politica e consolidare la sua base politica, militare e finanziaria nell’est della RDCongo. Si tratta di una strategia dettata dai suoi alleati ruandesi.

A questo proposito, si ricorderà che Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò,  il 15 novembre 1996, la risoluzione 1080, che autorizzava la creazione di una forza multinazionale temporanea di circa 12.000 uomini sotto il comando canadese, al fine di garantire la protezione dei rifugiati hutu ruandesi nella parte orientale dello Zaire e di evitare gli attacchi del FPR contro di loro. Prevedendo che una tale presenza avrebbe sventato i suoi piani di attaccare il Congo, il Ruanda ha anticipato gli avvenimenti, ideando un piano per far fallire l’intervento delle forze dell’ONU. Lo stesso giorno del voto sulla risoluzione, l’APR e l’AFDL sottoposero a intensi bombardamenti l’enorme campo profughi di Mugunga, principale base degli ex-FAR e degli Interahamwe, con l’intento di cortocircuitare il piano delle Nazioni Unite. Tale intervento impedì l’attuazione della risoluzione 1080, mettendo l’ONU davanti al fatto compiuto e rendendo difficile e “inutile” l’invio di una forza di interposizione. Questa è stata la fase decisiva della guerra del 1996-1997 in Congo.

Nello stesso modo, non è escluso (questa è solo un’ipotesi) che l’M23 possa utilizzare la stessa procedura nel caso in cui si senta davvero minacciato o quando si profili l’inizio delle operazioni della nuova brigata della Monusco. Quindi non avrà altra scelta che di rafforzarsi militarmente, rioccupando eventualmente la città di Goma (capoluogo del Nord Kivu), in vista di far salire la tensione, per esigere un diverso dispiegamento della brigata o una revisione della sua missione. Diventerebbe quindi una brigata internazionale la cui missione non sarebbe più quella di disarmare l’M23, anch’esso considerato finora come forza negativa, ma solo gli altri gruppi armati. Potrebbe diventare una forza di interposizione tra l’M23 e l’esercito nazionale e tra l’M23 e gli altri gruppi. Questa è un’ipotesi plausibile, tanto più che l’esito dei colloqui tra il governo congolese e l’M23 a Kampala (Uganda) rimane ancora del tutto incerto. Nella strategia ruandese del “combattere e negoziare” clonata anche dall’M23, quando i negoziati “falliscono”, sono le armi che decidono su come far evolvere la situazione.

In effetti, non è da escludere una nuova alleanza tra Kinshasa e l’M23, come nel marzo 2009 con il CNDP. È un’ipotesi da non escludere, data l’affinità dell’M23 con il CNDP, che resta un alleato politico (fino a prova contraria) di Kinshasa. In questo senso, la strategia dell’M23 sarebbe quella quella di lavare i panni sporchi in famiglia, piuttosto che con l’intervento delle Nazioni Unite, mediante un accordo con il governo che renderebbe inutile, o almeno inappropriata, la presenza di una brigata internazionale.

D’altra parte, la presenza di una brigata internazionale di intervento provocherebbe certamente un effetto dissuasivo che potrebbe riuscire a ridurre temporaneamente l’intensità della violenza. Potrebbe però causare anche uno spostamento delle milizie armate verso zone più interne, non comprese nel raggio d’azione della Brigata di intervento, come successo con l’operazione Artemis nel 2003, a Bunia. Ma, a lungo termine, le milizie potrebbero ricostituirsi e rioccupare il territorio, se il governo congolese non prende misure sufficienti, come “l’addestramento e l’equipaggiamento adeguato delle FARDC” che non sono soggette all’embargo sulle armi che riguarda solo i gruppi armati. Il grande problema è che sono alti ufficiali delle FARDC – citati in vari rapporti degli esperti delle Nazioni Unite – che vendono ai gruppi armati armi e munizioni destinate alle FARDC.[9]

Ciò che si può temere è che il Ruanda e l’Uganda, principali sostenitori dell’M23, entrino in gioco a fianco dell’M23. Tale intervento potrebbe complicare la situazione sia per le Nazioni Unite che per la RDCongo. Il Ruanda potrebbe, infatti, andare fino in fondo nella sua logica, appoggiando l’M23 nella sua lotta contro la nuova brigata delle Nazioni Unite.

A suo tempo, la Cina si interpose (anche se membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) contro le truppe delle Nazioni Unite durante la guerra della Corea nel 1950. Un analista del sito agoravox.fr presenta uno scenario che potrebbe ripetersi nel caso della RDCongo.
Così si esprime: “La sconfitta che ne seguì (nota: dopo l’intervento delle truppe cinesi) costrinse le forze dell’ONU a ritirarsi all’altezza del 38° parallelo divenuto, da allora, il confine tra le due Coree, consacrando la spartizione del paese … Non è da escludere un simile scenario anche in Congo. Se l’M23, rinforzato da truppe ruandesi, riuscisse a sconfiggere la brigata delle Nazioni Unite, la balcanizzazione della RDCongo diventa una possibilità reale. Infatti, il Congo di Joseph Kabila non ha la capacità militare di riprendere i territori che potrebbero passare sotto controllo dei combattenti ruandesi, ancor meno se tali territori fossero sottratti dalle mani delle forze dell’ONU. La comunità internazionale, che non ha ancora digerito l’umiliazione della caduta di Goma, si lascerà sconfiggere?[10]

3. LE TRATTATIVE DI KAMPALA

Il 16 aprile, il ministro della Difesa ugandese e facilitatore dei colloqui tra l’M23 e il governo congolese, Crispus Kiyonga, avrebbe dovuto presentare una sintesi di un progetto di accordo tra le due parti, ma nulla è stato fatto. Tale esitazione illustra la difficoltà di trovare un terreno comune tra Kinshasa e l’M23. Ciascuno dei due protagonisti ha presentato la propria proposta di accordo. Ma sono completamente opposte tra loro. Il governo propone uno scioglimento immediato dell’M23. L’M23 vorrebbe, invece, mantenere il controllo sui territori da lui occupati per almeno altri cinque anni, per poter dedicarsi alla lotta contro gli altri gruppi armati. È così che l’M23 si propone di fare lui stesso il lavoro affidato alla brigata speciale di intervento della Monusco.[11]

L’M23 ha proposto al governo congolese un progetto di accordo in 25 articoli.

L’M23 chiede al governo congolese:

– la creazione di una struttura speciale per la riconciliazione nazionale,

– la ritenuta, da parte delle province, del 40% delle entrate fiscali e la creazione di 25 province, più la città di Kinshasa, nel quadro della realizzazione del decentramento,

– l’organizzazione, senza indugio, delle elezioni provinciali, urbane, comunali e locali in tutto il territorio della Repubblica,

– la ratifica, da parte del Parlamento, del Patto sulla sicurezza, la stabilità e lo sviluppo nella regione dei Grandi Laghi, firmato a Nairobi il 15 dicembre 2006 e dell’accordo quadro per la pace, la sicurezza e la cooperazione nella RDCongo e nella regione dei Grandi Laghi, firmato ad Addis Abeba il 24 febbraio 2013,

– il rafforzamento della cooperazione regionale e dell’integrazione economica, attraverso l’adesione alla Comunità dell’Africa Orientale (East African Community),

– la gratuità dell’insegnamento primario, al fine di facilitare l’accesso all’istruzione per tutti,
– la suddivisione della Corte Suprema di Giustizia in tre tipi di giurisdizione: la Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato, per rafforzare il sistema giudiziario congolese e per garantire l’indipendenza del potere giudiziario,

– la promulgazione della legge approvata dall’Assemblea Nazionale sulla creazione di una commissione nazionale per i diritti umani, per promuovere le libertà e i diritti umani fondamentali.

Potrebbe sembrare un progetto ideale per il buon governo. In realtà, si tratta di una semplice strategia dell’M23 per raggiungere i suoi veri obiettivi.

A suo vantaggio, l’M23 esige:

– la promulgazione di una legge sull’amnistia per atti di guerra e di insurrezione commessi dal 7 maggio 2009 fino alla fine dell’attuazione dell’accordo,

– l’integrazione e la partecipazione dei quadri politici dell’M23 alla gestione delle istituzioni nazionali: Governo centrale, Diplomazia – cancellerie, imprese pubbliche, governi provinciali, Stato Maggiore Generale, ecc.

– Il riconoscimento formale dei gradi dei militari e degli agenti di polizia dell’M23, sulla base di un OB (Ordine di battaglia) presentato dallo stesso M23,

– il riconoscimento di tutti gli atti politici e amministrativi avvenuti nelle entità territoriali sotto l’amministrazione dell’M23,

– la penalizzazione di atti, parole, atteggiamenti ed espressioni di qualsiasi forma che trasmettano pensieri xenofobi, razzisti, tribali e discriminatori.

Da parte sua, l’M23 si impegna a:

– trasformarsi in partito politico. Tuttavia, si riserva il diritto di cambiare nome,

– condurre operazioni militari congiunte in collaborazione con il governo e a partecipare alle operazioni di pacificazione e di stabilizzazione della parte orientale del Paese. Queste operazioni dovrebbero essere effettuate su un periodo di cinque anni rinnovabili e avrebbero come obiettivo il disarmo definitivo di tutte le forze negative straniere che operano a partire dal territorio congolese (LRA, ADF-NALU, FNL, FDLR …). Pertanto, per effettuare tali operazioni, ci sarà una composizione e un’articolazione adeguate delle forze congiunte FARDC-ARC,

– deporre le armi e smobilitare i militari dell’ARC che non desidereranno integrare le FARDC, quando l’est della RDCongo sarà in sicurezza e liberato da tutte le forze negative straniere e da tutti i gruppi armati nazionali e dopo che gli sfollati interni e i rifugiati all’estero saranno ritornati e re-insediati nei loro luoghi di origine,

– non ricorrere alle armi per dare voce alle rivendicazioni del popolo congolese.

Gli esperti che hanno analizzato il documento sostengono che, con questo progetto d’accordo, l’M23 ha sancito la sua posizione a favore della balcanizzazione del paese, quando afferma che, a causa delle ricorrenti guerre che hanno portato alla distruzione delle infrastrutture e del tessuto sociale ed economico, il governo dovrebbe dichiarare la parte orientale della RDCongo (Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri, Haut-Uele, Maniema e Tanganica) come una “zona disastrata”. Come tale, la zona dichiarata disastrata dovrà usufruire di uno speciale statuto amministrativo, di un piano speciale di sviluppo, di una grande autonomia fiscale e finanziaria, di un particolare piano operativo per la sicurezza e di un programma specifico di sicurezza per la realizzazione dei diversi accordi regionali, tra cui il patto di Nairobi e l’accordo quadro di Addis Abeba. Inoltre, il ritorno dei rifugiati all’estero e degli sfollati interni nella “zona disastrata” sarà realizzato congiuntamente e secondo un programma stabilito dalle parti del presente accordo.[12]

Il 25 aprile, l’M23 ha ritirato la sua delegazione presente ai colloqui di Kampala. I rappresentanti dell’M23 lasciano, però, la porta aperta a una possibile ripresa dei negoziati.

Una decina di delegati del movimento sono tornati a Bunagana, la città di confine tra la RDCongo e l’Uganda e sede politica dell’M23.

L’M23 sta cercando un accordo all’interno del movimento tra coloro che vogliono affrontare la nuova brigata di intervento dell’ONU, che già si sta preparando a Goma, e coloro che sono ancora alla ricerca di soluzioni politiche per evitare questo confronto armato, soluzioni che potrebbero essere contenute in un eventuale accordo con il governo congolese.  Per questo, l’M23 non parla di una rottura dei negoziati di Kampala, ma semplicemente di una “partenza” della sua delegazione. Solo due delegati dell’M23 sono rimasti nella capitale ugandese, in qualità di osservatori.[13]

4. LA RDCONGO DICE NO AD UN ACCORDO SULLO STATUTO DEI RIFUGIATI RUANDESI

Il 18 aprile, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha organizzato, a Pretoria, una riunione di ministri su una strategia globale di ricerca di soluzioni durature alla situazione dei rifugiati ruandesi. Erano presenti i ministri degli interni, o loro delegati, di dodici paesi che ospitano rifugiati ruandesi fuggiti dal loro Paese tra il 1959 e il 31 dicembre 1998. Si tratta di Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo, Kenya, Malawi, Mozambico, Ruanda, Repubblica del Sud Africa, Uganda, Zambia e Zimbabwe.

Il principale argomento discusso nel corso della riunione è stato quello di chiedere ai Paesi di asilo di aderire alla clausola di cessazione dello statuto di rifugiati ruandesi.

Come promemoria, la clausola di cessazione dello statuto di rifugiati è una possibilità inclusa nella Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati e nella Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 sui rifugiati. Tali accordi prevedono la cessazione dello status di rifugiato quando, nel paese di origine, ci siano stati dei cambiamenti fondamentali e duraturi che hanno contribuito al miglioramento della situazione e, quindi, le circostanze che avevano causato l’esodo hanno cessato di esistere.

Nel corso di una prima riunione ministeriale a Ginevra, il 9 dicembre 2011, era stato raccomandato agli Stati di attuare tale clausola entro il 30 giugno 2013.

Seraphine Mukantabana, ministro ruandese per le calamità e i rifugiati, ha tentato di dimostrare che il Ruanda è un paese ritornato ad una situazione di pace totale, classificato tra i migliori Stati africani per l’indice di sviluppo umano e che, per questo, non c’è più alcun motivo che giustifichi che i suoi compatrioti ancora rifugiati all’estero continuino ad usufruire dello statuto di rifugiati.

Le reazioni all’intervento della ministro ruandese non si sono fatte attendere. I partecipanti si sono subito interrogati sulle reali condizioni affrontate dai rifugiati rimpatriati in Ruanda e si sono posti la seguente domanda: se il Ruanda è già un paradiso e se i suoi cittadini rifugiati all’estero vivono ancora in una situazione da inferno, perché non vogliono lasciare l’inferno per andare nel paradiso?
Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (UNHCR), i governi africani hanno “riaffermato all’unanimità il loro impegno per risolvere la situazione dei rifugiati ruandesi, attraverso principalmente l’intensificazione degli sforzi per promuovere il loro rimpatrio” che, finora, è stato molto limitato. Essi hanno inoltre concordato di prestare attenzione alle opportunità di integrazione locale, tra cui “la facilitazione per i rifugiati di ottenere uno status alternativo nei paesi di asilo come, per esempio, la cittadinanza per naturalizzazione”.

Alcuni stati hanno indicato di essere in grado di applicare la clausola di cessazione entro la fine di giugno 2013. Altri, invece, hanno affermato che, per varie ragioni, “non sono ancora in grado di farlo o non lo possono fare”.

La ministro ruandese Mukantabana ha dichiarato che il suo governo è disposto a rilasciare passaporti nazionali ai rifugiati ruandesi che optino di rimanere nell’attuale paese ospitante e che rispetterebbe  la scelta di coloro che vorranno acquisire la cittadinanza del paese d’asilo. Ella ha sottolineato anche che il ricorso alla clausola di cessazione dello statuto di rifugiato entro il 30 giugno 2013 sarà l’occasione, per il Ruanda, di considerare che, a partire da tale data, non ci sarebbe più alcun rifugiato ruandese fuori del paese.

Da parte sua, il governo congolese ha rifiutato di firmare l’accordo sulla clausola di cessazione dello statuto dei rifugiati ruandesi sul suo territorio.

Il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, ha affermato: «Se si accettasse questa clausola di cessazione, a un certo punto il Ruanda potrebbe in qualsiasi momento cessare di considerare come propri cittadini tutti i rifugiati ruandesi che potrebbero trovarsi ancora in territorio congolese. Il Ruanda potrebbe dire che non ci sarebbe più alcun rifugiato ruandese nella RDCongo e che tutti coloro che ancora vi si troverebbero, dovrebbero essere automaticamente considerati come cittadini congolese quando, invece, la nazionalità congolese non può essere ottenuta in modo collettivo».

La RDCongo ha quindi detto no a tale disposizione del diritto internazionale, per evitare una presenza sul suo suolo di persone che si sentano apolide o che pensassero di aver acquisito, di fatto, la nazionalità congolese.

Il Ministro degli interni, Richard Muyej, ha quindi proposto tre fasi per raggiungere l’obiettivo:
– Organizzare immediatamente un incontro tripartito tra la RDCongo, il Ruanda e l’Unhcr per una valutazione e l’applicazione effettiva dell’accordo tripartito firmato a Kigali il 17 febbraio 2010 e delle sue modalità sottoscritte a Goma il 30 luglio 2010;

– Procedere, con l’appoggio della comunità internazionale, alla registrazione di tutti i rifugiati ruandesi presenti nella RDCongo;

– Approvare la clausola di cessazione dopo l’attuazione dell’accordo tripartito e delle sue modalità pratiche, per consentire a tutti i rifugiati ruandesi di tornare al loro paese di origine nella sicurezza e nella dignità.

Secondo il ministro congolese degli interni, vi è ancora una forte presenza di rifugiati ruandesi in territorio congolese. Le statistiche provvisorie del governo congolese dimostrano che a Kinshasa, ci sono 67 rifugiati ruandesi, nel Katanga 598, nel Kasai Orientale 1.584, nell’Equateur 287, nel Nord Kivu 106.013 e nel Sud Kivu 18.988, per un totale di 127.537 rifugiati ruandesi ancora presenti  nella RDCongo. Secondo l’UNHCR, i rifugiati ruandesi nella RDCongo sarebbero solo 49.181, ma va notato che l’UNHCR contabilizza, in generale, coloro che sono iscritti sulle liste dei campi dei rifugiati, ma che ce ne sono molti altri che vivono tra la popolazione autoctona. Da parte sua, l’HCR afferma di aver rimpatriato 7.900 rifugiati ruandesi nel 2012 e oltre 1.000 da gennaio 2013.[14]



[1] Cf Radio Okapi, 17.04.’13

[2] Cf Le Potentiel – Kinshasa, 18.04.’13

[3] Cf Radio Okapi, 19.04.’13

[4] Cf Radio Okapi, 12.04.’13

[5] Cf Radio Okapi, 16.04.’13

[6] Cf Radio Okapi, 17.04.’13

[7] Cf Radio Okapi, 25.04.’13

[8] Cf Christophe Rigaud – Afrikarabia, 29.04.’13

[10] Cf Le Potentiel – Kinshasa, 18.04.’13

[11] Cf RFI, 17.04.’13

[12] Cf Willy Kilapi – L’Observateur – Kinshasa, 22.04.’13 (via mediacongo.net):

http://www.mediacongo.net/show.asp?doc=32778#

[13] Cf RFI, 25.04.’13

[14] Cf Stanislas Ntambwe – Le Potentiel – Kinshasa, 24.04.’13; Le Phare – Kinshasa, 22.04.’13; Radio Okapi, 22.04.’13