Rwanda Attualità – marzo 2011

Sommario:

1. Victoire Ingabire ancora in prigione
2. Quale giustizia?
3. Quale politica sociale?
4. La giustizia internazionale
5. La diaspora ruandese
6. La visita di Paul Kagame a Parigi: annullata?
7. L’altra faccia di certe arrese e rimpatri

Editoriale:
“Il regime instaurato in Ruanda dal presidente Paul Kagame è un regime totalitario.

L’intolleranza al riguardo del dibattito democratico e contraddittorio ha condotto il regime ad imbavagliare la stampa, ad intimidire i militanti dei diritti umani e a vietare ogni formazione politica di opposizione degna di questo nome.
I Ruandesi che rifiutano di sostenere i politici del governo sono, spesso e indistintamente, assimilati alle forze negative e accusati di minacciare la sicurezza nazionale. Le defezioni di alte personalità politiche, di ufficiali dell’esercito, di numerosi soldati, di militanti dei diritti umani e di giornalisti indipendenti, la cui maggior parte si trova oggi in esilio; l’imprigionamento o l’assassinio dei leader di opinione che osano criticare la linea politica adottata dal potere; le molte uscite dal paese, soprattutto e paradossalmente, tra i giovani tutsi diplomati che non vogliono più continuare a vivere in un paese dove le libertà essenziali sono calpestate dal regime, sono elementi che rivelano una situazione politica precaria e instabile.

In un recente rapporto delle Nazioni Unite (rapporto Mapping) pubblicato il primo ottobre 2010, il regime del presidente ruandese, Paul Kagame, è stato messo direttamente in causa nei massacri che hanno provocato la morte di varie centinaia di migliaia di rifugiati hutu ruandesi – e un numero ancora maggiore di vittime congolesi – in Congo-Zaire. I massacri degli Hutu ruandesi potrebbero essere qualificati, secondo lo stesso rapporto dell’ONU, di genocidio da un tribunale competente.

Dal 1994, altri rapporti dell’ONU e di ONG internazionali mettono in evidenza la diretta implicazione del regime di Kigali nei crimini di guerra e nei crimini contro l’umanità commessi in Ruanda e nel Congo-Zaire, come pure nel saccheggio delle ricchezze minerarie della Repubblica Democratica del Congo.

Malgrado questa sovrabbondanza di elementi che attestano l’esistenza di un regime criminale a Kigali, la società ruandese è presa oggi in ostaggio da una doppia irresponsabilità: quella, in primo luogo, del Fronte Patriottico ruandese (FPR), Partito – Stato – Esercito e del Presidente Paul Kagame, che non hanno il coraggio di riconoscere e di assumere la loro parte di responsabilità nella tragedia nazionale e quella, in secondo luogo, più cinica ancora, della Comunità internazionale, il cui atteggiamento, ora protettivo, ora compiacente, rinforza il regime autoritario e totalitario di Kigali.

Il Ruanda è ad un incrocio di strade. La Comunità Internazionale deve, senza tardare, ascoltare il grido del popolo ruandese che comincia, contro venti e maree, ad imbarcarsi seriamente in un processo di Dialogo Inter-Ruandese Altamente Inclusivo (DIRHI), unico quadro propizio all’edificazione di un clima di fiducia tra le etnie del Ruanda, indispensabile alla riconciliazione effettiva, alla pace, alla fine dei conflitti ricorrenti all’est della RDCongo e allo sviluppo duraturo nella Regione dei Grandi Laghi.

La Comunità Internazionale non manca di occasioni per esigere, il più presto possibile, la tenuta di questo dialogo inter-ruandese, sincero e inclusivo, che metterebbe fine alle attuali scandalose violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali, come la libertà di espressione e di associazione, riconosciuta nella costituzione ruandese attuale.

La Comunità Internazionale deve, senza tardare, assumere le sue responsabilità e agire prima che sia troppo tardi, affinché domani, nessuno dica che non sapeva.

1. VICTOIRE INGABIRE ANCORA IN PRIGIONE

Il 17 dicembre, l’Alta Corte di giustizia del Ruanda non ha accolto la richiesta di liberazione sotto cauzione di Victoire Ingabire, l’oppositrice accusata dal governo per minaccia contro la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. In un comunicato, i servizi del procuratore annunciano un prolungamento di trenta giorni del periodo di detenzione preventiva per l’oppositrice. Victoire Ingabire è perseguita anche per avere partecipato, secondo il governo, alla creazione della Coalizione delle Forze Democratiche (CFD), un gruppo armato basato sul territorio della Repubblica Democratica del Congo. La Ingabire si dichiara non colpevole. Presidentessa delle Forze Democratiche Unificate (FDU), rientrata dall’esilio all’inizio del 2010, la Ingabire è stata arrestata a Kigali nell’ottobre 2010, quando era già sotto controllo giudiziario da aprile.

Il 18 dicembre, Victoire Ingabire lancia un nuovo messaggio dalla sua cattività:

 «Miei cari compatrioti, Vi scrivo queste parole senza sapere se vi giungeranno, quando vi giungeranno e se sarò ancora in vita quando vi giungeranno.

Miei cari compatrioti, tutto lungo la mia lotta per la libertà e la democrazia del popolo ruandese, non ho mai dubitato un solo secondo del trionfo finale della sacra causa a cui dedico tutta la mia vita. Ciò che voglio per il nostro paese, è il suo diritto ad una vita onorabile, ad una dignità senza macchia alcuna, ad una libertà di espressione e ad una democrazia senza nessuna restrizione.

Miei cari compatrioti, ciò che voglio dirvi ovunque siate, è che, morta o viva, in libertà o in prigione su ordine del dittatore, non è la mia persona che conta. È il Ruanda, che si è trasformato in paese della morte, è il popolo ruandese che si è trasformato in cereali da macinare. Ho deciso di condurre un aspro combattimento contro questi flagelli che corrompono il nostro paese.

Qualunque siano le umiliazioni che subisco, la mia fede è e resterà incrollabile. So e sento in fondo a me stessa che, presto o tardi, il popolo ruandese sconfiggerà quei predatori che l’impoveriscono, che si alzerà come un solo uomo per dire no alla dittatura degradante e vergognosa e per riprendersi la sua dignità rubata. Sì, miei cari compatrioti, la democrazia e la libertà appaiono già all’orizzonte.

Miei cari compatrioti, Come già sapete, il mio combattimento è un combattimento di pace, di dialogo, di convinzioni. Non ho mai pensato un solo istante che bisognava prendere le armi per attaccare il Ruanda. No, il Ruanda ha sofferto già abbastanza. Chiedo solamente la libertà, la dignità, la giustizia e la democrazia.

Miei cari compatrioti, Come già sapete, senza dignità non c’è libertà, senza giustizia non c’è dignità e senza democrazia non ci sono uomini liberi.

Miei cari compatrioti, Né brutalità, né torture, né sevizie mi porteranno a chiedere la grazia: preferisco morire a testa alta, in una solida fede e in una profonda fiducia nel destino del mio paese e del popolo ruandese, piuttosto che vivere nella sottomissione e nel disprezzo dei principi sacri.

Miei cari compatrioti, Se dovesse capitarmi qualcosa, non mi piangete, perché so che il popolo ruandese, che sta soffrendo tanto, è un popolo forte e degno e che saprà continuare la lotta per la democrazia e la libertà che stanno già apparendo all’orizzonte; orizzonte, orizzonte, orizzonte.

Viva il Ruanda e il popolo ruandese!».

Il 20 gennaio, la giustizia ruandese ha una nuova volta respinto la richiesta di libertà provvisoria di Victoire Ingabire, accusata di “terrorismo” dalle autorità giudiziarie. La sua richiesta non è stata accolta dall’Alta Corte della Repubblica e resterà detenuta alla prigione centrale di Kigali, nell’attesa del processo la cui data non è stata ancora fissata. È la terza volta che la giustizia ruandese respinge una richiesta di rimessa in libertà provvisoria della Ingabire.

2. QUALE GIUSTIZIA?

 Da alcuni mesi, i tribunali del regime di Paul Kagame girano a pieno regime per processare, e spesso condannare a pesanti pene, delle persone semplicemente per le loro opinioni. Personalità politiche dell’opposizione, giornalisti, ex militari e, addirittura, ecclesiastici. Sono tutti perseguiti per avere emesso delle opinioni che non vanno nella stessa linea ideologica del regime. Le organizzazioni dei diritti dell’uomo criticano regolarmente il regime di Kagame, accusandolo di restrizioni della libertà di parola, ciò che Kigali smentisce categoricamente. La critica dell’azione governativa, dovunque ammessa come pratica democratica normale, è invece assimilata dal regime dittatoriale di Kigali ad un crimine grave.

Il 5 gennaio, la giustizia ruandese ha richiesto 33 anni di carcere per Agnès Uwimana Nkusi, capo redattrice di un giornale locale indipendente, Umurabyo, accusata dal governo di avere pubblicato degli articoli che incitano al “revisionismo” e alla “sovversione dell’ordine pubblico”. Secondo il rappresentante del procuratore, Augustin Nkusi, il giornale Umurabyo ha negato il genocidio, affermando, nei suoi articoli, che nel 1994 Hutu e Tutsi si erano semplicemente ammazzati tra di loro. Agnès Uwimana è perseguita, dunque, per negazione del genocidio dei Tutsi nel 1994, ideologia di genocidio e diffamazione contro le massime autorità del paese, fra cui il presidente Paul Kagame.

Nello stesso affare, il ministero pubblico ha chiesto 12 anni di reclusione per un’altra giornalista dello stesso mensile, Saidath Mukakibibi. Le due donne erano state arrestate nel luglio 2010 e, da allora, sono detenute in carcere. L’Alta Corte della Repubblica renderà il suo verdetto il 4 febbraio.

Il 7 gennaio, la giustizia ruandese ha respinto la richiesta di liberazione provvisoria dell’Abbé Emile Nsengiyumva, un prete cattolico dell’est del paese, accusato di “attentato contro la sicurezza dello stato”, in seguito ad omelie qualificate come ostili ai programmi governativi. Arrestato otto giorni prima, il sacerdote è parroco di Karenge, nella Provincia dell’Est. Secondo il suo avvocato, Canisius Karambizi, l’ecclesiastico è accusato di fare propaganda, nelle sue omelie, contro le politiche governative concernenti l’abbattimento delle “capanne di paglia” e la promozione del “planning familiare”. L’avvocato difensore ha precisato: “Anche il mio cliente desidera che ogni Ruandese abbia una casa decente, ma ritiene che prima di distruggere le capanne di paglia, bisognerebbe innanzitutto costruire altre case per coloro che abitano tali capanne”, continuando: “Per ciò che riguarda il planning familiare, l’abbé Emile Nsengiyumva propone semplicemente i metodi naturali”.

Il 14 gennaio, l’Alta Corte Militare di Kanombe, a Kigali, ha condannato, in contumacia, a 24 anni di prigione l’ex-capo di Stato Maggiore dell’esercito, il generale Faustin Kayumba Nyamwasa, esiliato in Sud Africa e il maggiore Théogène Rudasingwa, anchegli in esilio e ex direttore di gabinetto del Capo dello Stato.

L’ex direttore dei servizi segreti per l’estero, il colonnello Patrick Karegeya, anch’egli esiliato in Sud Africa, e l’ex procuratore generale Gérald Gahima, fratello del maggiore Rudasingwa, sono stati condannati a 20 anni di prigione.

Diventati severi avversari del presidente Kagame, i quattro sono perseguiti per “sovversione dell’ordine pubblico, attentato contro la sicurezza dello stato, ingiurie e diffamazione, settarismo e associazione di malfattori”. Per Kayumba e Rudasingwa, si aggiunge l’aggravazione della diserzione dal loro posto in seno all’esercito. Contro Kayumba e Karegeya, sono in corso anche altre inchieste, per terrorismo: i due sono sospettati di essere dietro agli attentati alla granata che hanno provocato cinque morti l’anno scorso nella capitale Kigali.

Questi quattro ex stretti collaboratori di Paul Kagame, dei Tutsi cresciuti in esilio in Uganda, come lui, avevano, in un documento pubblicato all’inizio di settembre 2010, presentato un bilancio molto negativo circa la vita del loro paese, cominciando dall’arrivo al potere di Kagame nel 1994. Avevano denunciato “un governo minoritario, repressivo e irresponsabile” e chiesto l’istituzione di “un governo di coalizione che includerebbe anche l’opposizione, attualmente esclusa dal gioco politico”.

Il 16 gennaio, i quattro condannati hanno denunciato una giustizia “utilizzata” dal Capo dello Stato Paul Kagame contro i suoi “nemici”. “La giustizia militare ruandese non è indipendente, è piuttosto utilizzata dal presidente Kagame, per osteggiare quelle personalità civili e militari considerate come nemici politici”, hanno affermato i quattro, in un comunicato comune.

“L’obiettivo di questo dossier è quello di sopprimere l’opposizione politica, privare i cittadini ruandesi del diritto alla partecipazione politica, consolidare il potere dittatoriale e nascondere la verità sulla deplorevole situazione dei diritti dell’uomo e sull’attuale modo dittatoriale di governare il Paese”, affermano i quattro condannati.

Il 27 gennaio, è stato prolungato indefinitamente il “carcere preventivo” di un ufficiale superiore militare ruandese, il tenente-colonnello Rugigana Ngabo, perseguito per “atto di terrorismo”. Il tenente-colonnello Rugigana, fratello del generale Faustin Nyamwasa Kayumba, era stato arrestato nell’agosto 2010, in seguito alle accuse di “atto di terrorismo”, in particolare per essere stato tra gli istigatori degli attentati alla granata, avvenuti a Kigali l’anno scorso.

Il 4 febbraio, le due giornaliste di Umurabyo, un giornale indipendente del Ruanda, sono state condannate a 7 e 17 anni di prigione, per incitamento alla disobbedienza civile, incitamento alla divisione e negazione del genocidio.

La direttrice del giornale Umurabyo, Agnès Uwimana Nkusi, è stata condannata a 17 anni di imprigionamento per “negazione del genocidio dei Tutsi nel 1994, incitamento alla divisione e diffamazione” contro le massime autorità, fra cui il Capo dello Stato Paul Kagame, a causa di articoli pubblicati l’anno scorso.

L’Alta Corte di giustizia di Kigali ha condannato anche la sua collega Saidath Mukakibibi a 7 anni di detenzione, per “incitamento alla disobbedienza civile”. Solo quest’ultima era presente al momento del pronunciamento del verdetto, vestita con l’abito rosa dei prigionieri ruandesi.

Le due giornaliste, che hanno il diritto di ricorrere in appello, erano state arrestate nel luglio 2010 e sono rimaste in carcere da allora. La pubblicazione del loro giornale non è più autorizzata. I magistrati hanno citato alcuni loro articoli che criticano la politica seguita dal governo e i “gacaca”, tribunali popolari per processare i presunti responsabili del genocidio del 1994. Hanno inoltre rievocato una foto del presidente Kagame in cui ci sono dei simboli nazisti, ma senza determinare il grado di colpevolezza delle due imputate a tale proposito.

L’8 febbraio, Patrick Karegeya, attualmente esiliato in Sud Africa, è stato accusato dalle autorità giudiziarie del Ruanda di “complicità” col fuggitivo più ricercato per genocidio, Felicien Kabuga. Il portavoce del Tribunale ruandese, Alain Mukuralinda, ha dichiarato che ci sono degli elementi concreti secondo cui, dopo il genocidio del 1994, l’ex-capo dei servizi segreti era stato in “contatto segreto” con i figli dell’uomo d’affari accusato di partecipazione al genocidio e li aveva aiutati ad acquistare illegalmente i beni di loro padre, compresi due edifici a Kigali, capitale del paese.

L’11 febbraio, l’Alta Corte di Kigali ha giudicato il presidente del PS-Imberakuri, Bernard Ntaganda, colpevole di attentato alla sicurezza dello stato, di “divisionismo”, di incitamento alla divisione etnica e di tentativo di organizzare delle manifestazioni senza autorizzazione ufficiale. La Corte l’ha condannato a due anni di prigione per i primi due capi di imputazione (4 anni in totale) e a una multa di 100 000 franchi ruandesi (circa 175 $US) per il terzo capo di imputazione. Secondo Human Rights Watch, tali accuse sono legate alle critiche che Bernard Ntaganda ha emesso pubblicamente a riguardo di alcuni politici membri del governo. Secondo l’Ong, nelle sue dichiarazioni, il dirigente del PS-Imberakuri non ha mai pronunciato alcun incitamento alla violenza. Bernard Ntaganda non era presente quando il tribunale ha reso pubblica la sentenza.

Anche Sylvain Sibomana, Alice Muhirwa e Martin Ntavuka, tre membri delle FDU-Inkingi, un altro partito di opposizione, sono stati condannati ad una multa di 100 000 franchi ruandesi ciascuno, per avere tentato di organizzare delle manifestazioni senza autorizzazione ufficiale. Un altro membro del PS-Imberakuri, Jean-Baptiste Icyitonderwa, è stato prosciolto dal medesimo capo di imputazione.

Daniel Bekele, direttore della divisione Africa di Human Rights Watch, ha dichiarato che “si tratta evidentemente di processi politici”, aggiungendo: “Bernard Ntaganda, i suoi colleghi e le due giornaliste, come molti altri uomini e donne in Ruanda, pagano il prezzo forte per avere osato esprimere le loro opinioni.”

“Questi perseguimenti giudiziari dimostrano che il governo ruandese non lascia nessun spazio alla critica o all’opposizione, malgrado i suoi numerosi impegni pubblici in favore della libertà di espressione e del pluralismo politico”, ha affermato Daniel Bekele, sottolineando che “tali accuse sono totalmente infondate e il sistema giudiziario è utilizzato come mezzo per fare tacere le opinioni dissidenti e intimidire il pubblico.”

Le accuse di “ideologia genocidaria”, “divisionismo”, “attentato contro la sicurezza dello Stato” e “sovversione dell’ordine pubblico” sono state spesso utilizzate dal governo, per imbavagliare le critiche emesse dall’opposizione e dalla dissidenza.

Human Rights Watch ha chiesto al governo ruandese di prendere le seguenti misure:

– Permettere ai partiti di opposizione, ai giornalisti e agli altri cittadini di esprimere le loro opinioni, senza dovere temere per la loro sicurezza;

– Approvare delle misure per restaurare e rispettare l’indipendenza del potere giudiziario;

– Accelerare la revisione della legge sulla “ideologia genocidaria”, annunciata dal ministro della Giustizia nel 2010, per includere una definizione più precisa dell’infrazione penale ed evitare l’utilizzazione abusiva di questo capo di imputazione a fini politici o altri;

– Modificare la legge del 2009 sui media, che impone pesanti restrizioni ai giornalisti e depenalizzare la diffamazione.

Il 2 marzo, il quotidiano filo governativo The New Time riporta che la giustizia ruandese ha respinto la richiesta di liberazione provvisoria presentata da 29 prigionieri sospettati di essere alla base degli attentati terroristici dell’anno scorso. Il giornale osserva che, durante il loro processo, la maggior parte degli imputati hanno confessato la loro implicazione diretta nella pianificazione degli attentati. Lo stesso quotidiano precisa che l’affare è ora di competenza della Corte suprema, incaricata dei processi per terrorismo. L’atto di accusa imputa la pianificazione degli attentati dell’anno scorso ad una rete criminale basata in Repubblica Democratica del Congo in connessione con i ribelli delle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (Fdlr). Sono annoverati tra gli imputati anche degli alti ufficiali dell’esercito fuggiti all’estero.

Il 3 marzo, tre sospetti, tra un gruppo di 29 presunti autori degli attentati alla granata che hanno scosso il Ruanda negli ultimi sei mesi, sono comparsi davanti al tribunale di prima istanza di Nyarugenge, nella capitale ruandese, Kigali. Per la prima volta, sono stati rivelatii i nomi dei primi indiziati, un dato che non era stato finora portato a conoscenza del pubblico.

Tra i tre sospettati comparsi davanti al giudice, c’è Théophile Munyaneza, un ex luogotenente del movimento ribelle hutu delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), attivo nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), che ha confessato di aver collocato le granate da mortaio 120 millimetri, esplose recentemente all’aerodromo di Gisenyi (nord-ovest, alla frontiera Rwanda-RDCongo).

Un altro complice degli attacchi alla granata, Fadhili Kanyarugunga, ha confessato di aver lanciato una granata in mezzo a una folla che guardava una partita alla televisione in un caffè di Butare, una città studentesca situata a 130 chilometri da Kigali, nel sud del Ruanda.

Sullo stesso banco degli imputati, c’era anche Frodouard Rwandanga, autore di un attacco notturno alla granata nell’aprile 2010.

L’accusa ha fatto notare che ci sono ancora degli indizi che provano un atteggiamento contraddittorio nelle dichiarazioni dei tre sospettati, anche se “hanno confessato il loro crimine”. “Occorre ancora esaminare minuziosamente le dichiarazioni dei tre imputati, perché vogliono ingannare la giustizia, per discolpare i loro complici attualmente in detenzione”, ha dichiarato l’ufficiale del pubblico ministero.


3. QUALE POLITICA SOCIALE?

Il 31 gennaio 2011, in un discorso pronunciato davanti al parlamento ruandese, il ministro ruandese della sanità, Richard Sezibera, ha annunciato che nei prossimi 3 anni, il governo si è posto l’obiettivo di sterilizzare 700 000 uomini, nell’intento di rallentare la crescita della popolazione.

La BBC riporta che il metodo che il governo intende utilizzare è quello della vasectomia, un metodo di contraccezione permanente nell’uomo e che presenta spesso un carattere irreversibile.

Già all’inizio di febbraio 2008, il Ruanda aveva lanciato una campagna di circoncisione maschile nel paese. Apparentemente anodina, la misura era un albero che nasconde la foresta. Nel luglio 2009, il ministro della sanità di allora, il Dr Ntawukuriryayo Jean Damascène, iniziò un progetto di legge di sterilizzazione obbligatoria che fu sottomesso al Parlamento. Fortunatamente, tale progetto non è andato in porto, in seguito alla vigilanza delle ONG dei Diritti dell’uomo, fra cui Human Rights Watch, che aveva ricordato al governo ruandese che “le disposizioni svalorizzanti, coercitive o che rifiutano all’essere umano i suoi diritti in materia di salute riproduttiva, devono essere ritirate” dal progetto di legge presentato.

Secondo il ministro, nell’identificazione dei gruppi interessati in questa operazione, un accento particolare è stato messo sulle famiglie povere.

Secondo il quotidiano pro-FPR, il The New Time, il Ruanda è il solo paese dell’Africa a proporre la vasectomia come mezzo di contraccezione.

L’intenzione di questo programma di sterilizzazione maschile, che comincerà all’inizio di luglio, non può che essere criminale: dalla sua presa del potere, nel luglio 1994, il governo ha preso solo delle misure che mirano ad impoverire e, soprattutto, ad affamare la sua popolazione. Basta ricordare i vari programmi come: il raggruppamento obbligatorio di tutte le famiglie in villaggi, per cui la popolazione è stata parcheggiata in zone non viabili e costretta a dormire sotto le stelle, perché si erano distrutte le loro case; la monocultura e l’imposizione della cultura dei fiori, che ha provocato una carestia endemica tra le masse popolari; l’imposizione di calzare le scarpe, che ha limitato l’accesso della popolazione ai centri di salute per farsi curare; la legge sul regime fondiario, che ha causato alla popolazione la perdita delle sue terre, in modo particolare nei dintorni dei laghi e dei fiumi, senza ricevere un’adeguata contropartita, le espropriazioni selvagge nei centri urbani, creando dei senza-casa, la recente distruzione delle case di paglia, che ha gettato più di 115.000 famiglie, +/-500.000 persone, sulla strada, senza tetto. Ora il governo si mette a recensire tutte queste vittime, rese volontariamente precarie, per sterilizzarle.

Altrove, i governi si limitano a legiferare sui metodi di contraccezione messi a disposizione dei cittadini, ma senza arrivare ad imporne uno e, meno ancora, a fissarsi degli obiettivi cifrati.

Certe voci dell’opposizione hanno subito denunciato questa intenzione genocidaria, affermando che il volere limitare le nascite tra un gruppo sociale ben determinato costituisce chiaramente un atto di genocidio. Per un regime politico, commettere un genocidio non consiste, tra l’altro, nel prendere delle misure che mirano ad ostacolare le nascite in seno ad un gruppo?

Le ONG per la difesa dei Diritti dell’uomo, le Istituzioni e i Paesi finanziatori del Ruanda dovrebbero in tutti i modi scoraggiare queste mire criminali di un regime contro la sua popolazione.

Già da molto tempo, lo stato ha istituito un fondo per venire in aiuto degli orfani sopravvissuti del genocidio, particolarmente per pagare i loro studi. Il fondo è alimentato da vari finanziatori, ma anche da tutti i Ruandesi che devono contribuire con una quota. Si tratta del famoso Fondo di Aiuto per i Superstiti del Genocidio (FARG). La selezione di quelli che possono beneficiare di questo fondo si fa in un determinato modo. Come, secondo l’impostazione data dal FPR, nessuno può parlare apertamente di Hutu o Tutsi e solo i giovani tutsi possono beneficiare di tale fondo, si è dovuto trovare uno stratagemma per raggirare ciò che è vietato. In ogni centro scolastico, è stato istituito un comitato incaricato di controllare e indagare sui beneficiari di questa borsa di studio. Sono i famosi AERG (Associazione degli Studenti Scampati al Genocidio). Le Loro riunioni sono convocate da bocca ad orecchio e si tengono in segreto. Secondo i risultati delle inchieste e di altri rapporti, il comitato può dichiarare: “Tal studente non è dei nostri”, sottinteso “non è un Tutsi”.

Tuttavia, anche migliaia di giovani hutu si sono ritrovati orfani dopo le campagne di pulizia condotte dall’APR su tutte le colline, prima, durante e dopo la sua presa del potere nel 1994. Alcuni anni più tardi, quando il regime decise di raccogliere tutti i bambini della strada e altri vagabondi, si trovarono quindi anche molti orfani hutu. Tale operazione di ricupero è ancora in corso, ma i giovani hutu sono deportati ad Iwawa, un’isola deserta del lago Kivu. Là, riceverebbero una formazione militare, senza per questo diventare dei militari di carriera. Evidentemente, Paul Kagame mantiene questi esclusi come riserva, per farne, al momento opportuno, della carne da cannone da inviare al fronte di un’altra eventuale guerra. Così dunque, dopo essersi sbarazzato dei loro genitori, dopo averli esclusi dal beneficio del FARG, il regime si è sbarazzato, anche fisicamente, degli orfani hutu, deportandoli sull’isola di Iwawa.

Le autorità locali della regione Est del paese, particolarmente a Gatsibo, hanno proceduto alla distruzione sistematica delle capanne costruite con tetto di paglia. È stato decretato che tutti hanno l’obbligo di costruire una casa con tetto di lamiere o tegole. Dopo i termini fissati, si è cominciata la demolizione delle case coperte di paglia.

Le conseguenze sono enormi: alcune famiglie dormono all’aperto o cercano rifugio presso i vicini e sono riapparse numerose malattie dovute alle cattive condizioni di vita in cui vivono le vittime.

La politica detta di raggruppamento in villaggi, iniziata a partire dal 1997, ha fatto gli stessi danni. Alcune case sono state distrutte per obbligare i loro proprietari ad occupare delle zone non ancora viabili, dove dormivano all’aperto.

Stabilendo, tra l’altro, che le terre nei dintorni dei laghi e dei grandi corsi d’acqua appartengono allo stato, la legge sul regime fondiario ha prodotto numerosi senza-casa.

Per favorire l’accaparramento di terre da parte di una piccola elite, un altro pretesto è così stato trovato per cacciare gli abitanti dalle loro legittime proprietà.

4. LA GIUSTIZIA INTERNAZIONALE

 Dal 5 al 15 dicembre 2010, sei militari ed ufficiali ruandesi sono stati convocati in Burundi da due giudici francesi, per la loro presunta responsabilità nell’attentato del 6 aprile 1994 contro l’aereo del defunto Presidente Juvénal Habyarimana, un attentato che fu il punto di partenza del genocidio del 1994. Queste sei persone, fra cui l’attuale ministro ruandese della Difesa, James Kabarebe, fanno parte dei nove stretti collaboratori di Paul Kagamé, oggetto dei mandati di arresto emessi, nel 2006, dal giudice francese Jean-Louis Bruguière. Sono stati convocati dai giudici istruttori antiterroristi Marc Trevidic e Nathalie Poux, per “complicità di assassinio e partecipazione a gruppo terrorista.”

Oltre James Kabarebe, tra i convocati appaiono il generale Jack Nziza, il tenente-colonnello Charles Kayonga, l’ex militare Jacob Tumwine, Franck Nziza, sospettato di essere stato uno dei tiratori dei missili che hanno abbattuto l’aereo, e Samuel Kanyemera. L’ex capo del protocollo di Kagame, Rose Kabuye, anch’ella oggetto di un mandato di arresto, era stata convocata verso la fine del 2008. Due altri Ruandesi sono oggetto dei mandati di arresto emessi da Bruguière: Faustin Nyamwasa-Kayumba, rifugiatosi in Sud Africa, e Eric Hakizimana, già deceduto.

La loro convocazione in Burundi, campo neutro volontariamente scelto, risulta da un accordo tra la giustizia francese e Kigali.

Questo appuntamento giudiziario in Burundi ha permesso di evitare un arresto che sarebbe stata proceduralmente automatico se gli indiziati fossero stati convocati in Europa. Questa convocazione permette anche a queste sei persone di avere accesso alla documentazione dell’inchiesta giudiziaria nei loro confronti. I mandati di arresto rilasciati nel 2006 dalla Francia contro queste persone e che avevano provocato la rottura delle relazioni diplomatiche tra Parigi e Kigali, dovrebbero essere sospesi. Le sei persone dovranno tuttavia restare a disposizione della giustizia, anche se sono state lasciate in libertà

I due magistrati avevano già effettuato una missione in Ruanda in settembre scorso, nel corso della quale avevano effettuato una ricostituzione dell’attentato. La perizia, i cui risultati sono attesi per marzo 2011, deve determinare il luogo preciso da cui provenivano i tiri.

Due tesi si affrontano in questa inchiesta: la giustizia francese, competente in questo dossier a causa della nazionalità francese dell’equipaggio dell’aereo, sospetta un commando del Fronte Patriottico Ruandese (FPR, oggi al potere) di essersi infiltrato attraverso il dispositivo delle Forze Armate Ruandesi (FAR), per abbattere l’aereo dalla collina di Massaka, sovrastante l’aeroporto. Una commissione di inchiesta ruandese ha, invece, imputato la responsabilità dell’attentato all’estremista “Hutu Power” delle FAR, che avrebbero voluto sbarazzarsi del presidente Habyarimana, giudicato troppo moderato, per perpetrare un colpo di stato.

Secondo Luc Marchal, numero due della Missione delle Nazioni Unite in Ruanda (MINUAR) durante gli anni 1993 e 1994, l’attentato del 6 aprile 1994 contro l’aereo del Presidente Juvénal Habyarimana è stato il primo episodio di un piano che doveva sfociare alla presa del potere mediante la forza delle armi.

Immediatamente dopo l’attentato, il FPR ha cominciato la sua offensiva, fin dalla notte dal 06 al 07 aprile. Parlando in quanto militare e tecnico, egli fa notare che è impossibile, sul piano militare, approfittare di un attentato, commesso da altri, per lanciare un’offensiva militare comprendente decine di migliaia di soldati. Da un punto di vista logistico, un’offensiva come quella condotta dal FPR, durata 3 mesi, richiedeva una scrupolosa preparazione.

È la ragione per la quale a titolo personale, egli è convinto al 100% che è il FPR che ha organizzato l’attentato per riprendere le ostilità. Secondo Luc Marchal, tale attentato faceva parte di un piano generale concepito dal FPR per prendere il potere con la forza.

Il motivo avanzato dal FPR per ricominciare la guerra era che, a Kigali, i Tutsi e gli Hutu “moderati” venivano massacrati e che le forze armate ruandesi erano incapaci di soffocare i massacri. Ma mai il FPR ha dimostrato una volontà per fare cessare questi massacri. La MINUAR e le forze armate ruandesi hanno fatto varie proposte per fermare i massacri, ma il FPR le ha sistematicamente respinte. Marchal conclude che la sorte dei Tutsi dell’interno non aveva nessuna importanza per Kagame e i suoi collaboratori e che, al contrario, il genocidio contro i Tutsi dell’interno è stato provocato dal FPR, per potere prendere e legittimare il suo potere. Egli afferma: “Se l’obiettivo del FPR fosse stato quello di fermare i massacri, avrebbe fatto appello ai militari stranieri, circa 3000 militari di élite, inviati in Ruanda per l’evacuazione degli stranieri, piuttosto che dar loro un ultimatum per lasciare il paese”. Invece, il FPR ha minacciato di abbattere il primo C-130 che trasportava i para-commando belgi e, in seguito, il FPR ha dato un ultimatum di 48 ore, affinché tutti i militari stranieri lasciassero il Ruanda, se no, sarebbero stati considerati come nemici. Luc Marchal ricorda anche che il FPR ha dato un altro ultimatum di 24h al battaglione del Ghana per lasciare il Ruanda, mentre avrebbe potuto aiutare a reprimere i disordini che stavano cominciando. In quel momento, con la partecipazione di tutti, era ancora possibile fermare i massacri.

Come conclusione, Luc Marchal afferma che l’obiettivo del FPR per la ripresa delle ostilità non era quello di mettere un termine ai massacri, ma quello di prendere il potere con le armi.


5. LA DIASPORA RUANDESE

Il 12 dicembre 2010, Gerald Gahima, ex procuratore generale del Ruanda, ha fondato il Congresso Nazionale del Ruanda (CNR), una piattaforma politica che vuole essere un’alternativa al FPR, se non un ritorno alle fonti di ispirazione del movimento. Si tratta di un movimento di opposizione che riunisce Hutu e Tutsi che, in esilio, denunciano la deriva autoritaria del potere di Kigali. Tra i cofondatori, c’è un ex capo di Stato Maggiore dell’esercito, il generale Faustin Kayumba Nyamwasa, attualmente esiliato in Sud Africa, un ex-capo dei servizi segreti, il colonnello Patrick Karegeya, anch’egli in esilio in Sud Africa, e l’ex direttore di gabinetto della presidenza, Théogène Rudasingwa. Questo movimento chiede ai Ruandesi e alla Comunità Internazionale di agire insieme, per mettere fine al regime di Kagame e aprire la via ad un governo di coalizione.

Secondo Gahima, “tutti sanno che, in Ruanda, lo stato controlla tutto e che è nelle mani di un solo uomo che non sopporta di essere contraddetto e la cui base reale si riduce ormai ad un piccolo gruppo di guardie del corpo e di alcuni civili… “. La concentrazione del potere, le frustrazioni che si moltiplicano a causa di una politica autoritaria e repressiva, tutto ciò preoccupa l’ex procuratore generale: “poiché le persone non possono esprimersi liberamente, ci sono troppe tensioni in questo paese… E’ per questo che è urgente dialogare, per rallentare la tensione… “. La requisitoria dell’ex procuratore è piena di accuse precise: “dall’oggi al domani, Kagame prende delle decisioni arbitrarie: sostituisce con l’inglese il francese parlato dall’80% della popolazione, aggiungendo così alle divisioni delle etnie e delle province anche quella della lingua; a Kigali, vieta di portare i sandali; decide di raggruppare le famiglie in villaggi, gli imidugudu, vietando di abitare sulla propria collina o sui propri campi; impone culture di alto rendimento, a scapito di culture agro-alimentari, ciò che provoca, in certe regioni, scarsezza di prodotti di prima necessità…Tutte queste decisioni arbitrarie provocano un malcontento generale che può condurre, a lungo termine, ad una implosione della situazione … I visitatori stranieri non possono, o non vogliono, vedere tale malessere e continuano a moltiplicano gli elogi del regime… “.

Il 26 gennaio, due partiti dell’opposizione ruandese, le Forze Democratiche Unificate, FDU, e il nuovo Congresso Nazionale del Ruanda (RNC), hanno annunciato di aver creato “un coordinamento comune” in vista di una lotta “pacifica” contro “la dittatura” del presidente Paul Kagame. Riunite a Montreux, in Svizzera, le FDU e il RNC affermano che, in Ruanda, “l’attuale sistema di governo è caratterizzato dalla dittatura, dalla discriminazione e dall’emarginazione”. Secondo I loro esponenti, non c’è nessun dubbio che, se il sistema non cambia in Ruanda, esso condurrà di nuovo la nazione ruandese ad un’altra tragedia”. Per questo, le due organizzazioni hanno deciso di stabilire un “meccanismo di coordinamento congiunto, per facilitare la loro collaborazione nella mobilitazione del popolo ruandese per un cambiamento democratico, attraverso una lotta pacifica”.

6. LA VISITA DI PAUL KAGAME A PARIGI: ANNULLATA O SPOSTATA?

Il 7 marzo, rispondendo a una domanda di un giornalista che gli chiedeva se il viaggio del generale Paul Kagame a Parigi fosse stato annullato, il portavoce del Ministero degli Affari Esteri ha risposto: “Un viaggio del Presidente Paul Kagame in Francia è previsto per i prossimi mesi, ma non è stata fissata ancora nessuna data”.

Inizialmente prevista per il mese di marzo o aprile, la visita è stata probabilmente spostata sine die.

L’arrivo al Quai d’Orsay di Alain Juppé, che occupò lo stesso posto di Ministro degli Affari Esteri dal 1993 al 1995, non è certo rassicurante per il potere ruandese: Juppé è di coloro che non ha mai voluto riconoscere alcun tipo di responsabilità della Francia nel genocidio del 1994. Kagamé, lo si può comprendere, non vuole dunque gettarsi nella bocca del leone e, quindi, aspetta per vedere…. Altro avvenimento che può aver causato lo slittamento del viaggio del presidente ruandese in Francia: la prossima pubblicazione delle conclusioni del rapporto Trevidic sull’attentato del 6 aprile 1994 contro l’aereo del presidente ruandese Juvenal Habyarimana.

Temendo un colpo di stato durante il suo soggiorno nella capitale francese, Paul Kagame avrebbe annullato la sua visita prevista in marzo prossimo. Da fonte prossima all’ambiente dell’uomo forte di Kigali, Kagame sarebbe confrontato ad un gruppo di giovani ufficiali tutsi democratici simpatizzanti del generale Kayumba Nyamwasa, capo di fila dell’opposizione tutsi. La visita del dittatore ruandese a Parigi era stata annunciata il 06/01/2011 dal settimanale Jeune Afrique.

Kagame è accusato dalle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità, di crimini di guerra e di atti di genocidio commessi in Repubblica Democratica del Congo tra il 1993 e il 2003.

C’è da chiedersi in nome di quale etica diplomatica o per quali interessi nazionali la Patria dei diritti dell’uomo, peraltro membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, prenderebbe il rischio di svolgere il tappeto rosso ad un criminale responsabile di avere pianificato, preparato, organizzato, ordinato e controllato il massacro di più di 300 000 rifugiati hutu e 5 milioni di civili congolesi. Si tratta di un criminale contro l’umanità travestito in capo di stato rispettabile!

Il presidente ruandese Paul Kagame si è spesso vantato dei suoi crimini commessi in RDCongo, come in quel discorso in cui rammarica pubblicamente di non avere potuto sterminare tutti i rifugiati hutu fuggiti in RDCongo, promettendo tuttavia di portare a termine l’operazione, quando l’opportunità si ripresentasse. Concludeva dicendo: “Abbiamo inseguito i rifugiati per rimpatriarli con la forza. Quelli che hanno accettato il rimpatrio, li abbiamo riportati in Ruanda. Quelli che dovevamo uccidere, li abbiamo uccisi. Punto finale”!

La diplomazia francese non può pretendere di ignorare, di non sapere. Si pone una questione fondamentale: un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può permettersi di ricevere un criminale contro l’umanità, designato come tale dalla Commissione dei Diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, senza rinnegare il suo ruolo in seno alla Comunità Internazionale?

La Francia dovrebbe annullare la visita di Paul Kagame sul territorio della Repubblica. La Francia non può ricevere un capo di stato straniero accusato di genocidio. Sarebbe un errore di apprezzamento, un errore di cui la diplomazia francese non si rialzerebbe.

I Primi ministri spagnolo e belga hanno già rifiutato di incontrare ufficialmente il generale Paul Kagamé. José Luis Zapatero ha evitato il suo incontro con Paul Kagamé inizialmente previsto a Madrid il 17 luglio 2010, in occasione del vertice delle Nazioni Unite sulla povertà e Yves Leterme ha rinunciato a questo incontro in occasione della visita di Paul Kagamé a Bruxelles, il 6 dicembre 2010, in occasione delle Giornate europee dello Sviluppo.


7. IL VOLTO NASCOSTO DI CERTE ARRESE E RIMPATRI

Il 15 febbraio, il Tenente-colonnello Samuel Bisengimana, incaricato del reclutamento in seno alle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR), gruppo armato attivo nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo), si è arreso alla Monusco (Missione dell’ONU in RDCongo), per essere rimpatriato in Ruanda.

Al suo ritorno in Ruanda, Sam Bisengimana ha rivelato che Tribert Rujugiro Ayabatwa, ex-consigliere del presidente Paul Kagame e uomo d’affari, avrebbe dei legami con le FDLR, gruppo ribelle hutu basato nell’est della RDCongo.

Secondo Sam Bisengimana, Ayabatwa, attualmente in Sud Africa, è implicato nel finanziamento della nuova coalizione di milizie che hanno per missione quella di destabilizzare il Ruanda e l’insieme della regione dei Grandi Laghi in Africa centrale.

Bisengimana ha dichiarato che “Ayabatwa ha recentemente assistito a varie riunioni a Città del Capo (Sud Africa), in cui hanno partecipato i tre ex – responsabili dissidenti dell’esercito ruandese e i capi del gruppo ribelle hutu FDLR, con lo scopo di creare una nuova coalizione di insorti per destabilizzare il Ruanda “.

I tre ufficiali dissidenti dell’esercito ruandese, attualmente richiedenti d’asilo in Sud Africa, sono: l’ex-capo di Stato Maggiore, il tenente generale Faustin Kayumba Nyamwasa, l’ex-responsabile dei servizi segreti, il colonnello Patrick Karegeya e l’ex-segretario generale dell’ufficio del presidente a Kigali, il maggiore Theogene Rudasingwa”.

Bisengimana ha aggiunto che “esiste un piano per lanciare un’offensiva contro il Ruanda a partire dall’est della RDCongo”, senza fornire ulteriori dettagli sul numero di combattenti reclutati dal nuovo gruppo ribelle. Tuttavia, il governo di Kigali stima che il nuovo gruppo sia composto da circa 6 000 combattenti hutu, per la maggior parte membri delle ex-forze armate ruandesi.

 Il FPR ha sfruttato a fondo il fatto che la lotta contro il terrorismo sia ora di moda e che gli USA abbiano iscritto le FDRL sulla lista dei gruppi terroristici. Il FPR a finalmente trovato un sedicente ex-ufficiale delle FDRL per fargli dire che l’oppositrice Victoire Ingabire collabora con questo gruppo armato. La stessa sceneggiatura è stata applicata alla “banda dei 4”: il generale Kayumba Nyamwasa, il colonnello Patrick Karegeya, Gerald Gahima e Théogène Rudasingwa. A Tribert Rujugiro, che ieri era nelle grazie del regime, qando faceva prosperare gli affari del FPR, inseme ai suoi, si rimprovera oggi di collaborare con la banda dei 4 e di sostenere finanziariamente le FDLR.