Congo Attualità n. 106

SOMMARIO:

EDITORIALE
1. LE ELEZIONI PRESIDENZIALI DI AGOSTO 2010
2. IL RITORNO DI VITTORIA INGABIRE
3. ATTENTATI A KIGALI
4. LA VISITA DEL PRESIDENTE FRANCESE, NICOLAS SARKOZY
5. L’ARRESTO DI AGATHE HABYARIMANA IN FRANCIA 

 

EDITORIALE

L’informazione sulla situazione politico economica della Repubblica Democratica del Congo (RDCongo) e, soprattutto, della sua parte orientale, fa spesso riferimento alla situazione del Rwanda.
Secondo vari osservatori, alcune cause dello stato di insicurezza che si vive all’est della RDCongo siano da ricercarsi proprio in Rwanda.

Perciò, la redazione di Congo Attualità ha pensato opportuno di dedicare un numero del bollettino a ciò che sta accadendo dall’altro lato della frontiera, in Rwanda precisamente.

L’informazione attuale si sta interessando a varie questioni, prima fra tutte: le elezioni presidenziali del prossimo agosto. Il clima pre-elettorale sembra alquanto teso. Varie fonti denunciano un clima di intimidazione da parte dell’attuale regime nei confronti dei partiti dell’opposizione. Vari di questi non sono ancora riconosciuti, quindi i loro leader non possono presentarsi come candidati, anzi, vengono addirittura interpellati e accusati di ideologia genocidaria, negazionismo e divisionismo.

Il potere è ampiamente controllato dal Fronte Patriottico Rwandese (FPR), il partito dell’attuale presidente Paul Kagame, a tal punto che vari osservatori ne denunciano una deriva dittatoriale. L’Unione Europea non ha ancora deciso se inviare una sua missione d’osservazione, tanto il risultato delle elezioni sembra già scontato.

La tensione pre-elettorale si è aggravata in seguito ad alcuni atti terroristici con esplosioni di bombe nella città di Kigali, la capitale e di Butare. Il governo ne addossa la responsabilità a dei militari e civili dissidenti del FPR, ciò che lascia intravedere reali divisioni in seno al potere.

La cronaca ha portato alla ribalta altri avvenimenti importanti: la pubblicazione della commissione rwandese di inchiesta sull’attentato del 6 aprile 1994 in cui fu ucciso l’allora presidente Juvenal Habyarimana, la visita del presidente francese Nicolas Sarkozy e l’arresto, in Francia, di Agathe Habyarimana, la vedova del defunto presidente Juvenal Habyarimana. La cronaca di questi ultimi tre avvenimenti rivela che ancora non è stata fatta alcuna luce sul genocidio rwandese del 1994, né sull’attentato contro l’aereo presidenziale, considerato ormai da tutti come l’elemento detonatore del genocidio stesso. Sempre più numerosi sono coloro che credono che solo la verità su ciò che è successo in Rwanda dal 1990 in poi potrà riconciliare i Rwandesi tra loro. La mancanza di verità genera solo paure, sospetti, accuse infondate e sentenze giudiziarie sbagliate. La Comunità Internazionale che non ha saputo prevenire, evitare o arrestare l’indicibile, dovrebbe rimediare a questo suo errore storico aprendo una inchiesta internazionale neutra su quanto successo in Rwanda.

Fino a quando non lo farà, peserà su di lei il sospetto di non estraneità o, addirittura, di complicità da parte di alcuni Paesi membri. L’impegno della verità e, quindi, per la giustizia resta il modo migliore per onorare la memoria di tutte le vittime (hutu, tutsi e twa) cadute prima, durante e dopo il genocidio rwandese del 1994, tanto in Rwanda come all’estero, per esempio in RDCongo.

Per questo la Comunità Internazionale dovrebbe assumere le sue responsabilità per contribuire, con tutti i mezzi a sua disposizione, alla costruzione di una pace duratura in Rwanda e nell’ aiutare i Ruandesi a riconciliarsi. Pensiamo che un vero e autentico dialogo inter-ruandese tra il partito al potere a Kigali, il Fronte Patriottico Ruandese (FPR) e l’opposizione, interna e in esilio, sia l’unica via che possa condurre alla vera riconciliazione e garantire la pace al popolo ruandese e a tutti i popoli della regione dei Grandi Laghi Africani. Questo dialogo dovrebbe permettere di preparare il terreno ad una transizione pacifica e veramente democratica, suscettibile di aprire al popolo ruandese la strada della pace e della riconciliazione. Questo dialogo dovrebbe, prima di tutto, consacrare l’abbandono di ogni ricorso alla violenza nel regolamento dei conflitti politici. La transizione politica ricercata è quella che prenderebbe in conto le rivendicazioni democratiche attuali, aprendo la via verso una democrazia in cui siano garantiti l’uguaglianza di diritti per tutti i cittadini, la partecipazione della società civile, il dibattito pubblico, la libertà di espressione e di associazione e la trasparenza delle consultazioni elettorali. Questo dialogo è inevitabile se si vuole gettare le basi di un patto solido che sigilli l’incontro di un popolo ri-nato dalle sue ceneri, un patto fondato su delle garanzie reciproche tra le comunità che hanno sopravvissuto ad un suicidio collettivo.

1. LE ELEZIONI PRESIDENZIALI DI AGOSTO 2010

Le prossime elezioni presidenziali avranno luogo in agosto prossimo, ma la loro preparazione si sta svolgendo in modo totalmente antidemocratico. Il regime del presidente Kagame ostacola l’organizzazione e, in qualche caso, il riconoscimento giuridico dei partiti di opposizione. I candidati che osano presentarsi come concorrenti e i loro collaboratori sono oggetto di aggressioni ed arresti arbitrari. Per screditare i suoi oppositori, il governo di Kagame li accusa di partecipazione al genocidio o di “ideologia genocidaria”.

Sin dal suo ritorno dall’esilio, in gennaio scorso, Victoire Ingabire, candidata del Partito FDU-Inkingi, è stata oggetto di un’ntensa campagna di diffamazione e di intimidazione. Il partito PS-Imberakuri è stato accusato di “ideologia genocidaria” ed il Partito dei Verdi, di “nemico del paese”.

L’Unione Europea non ha ancora deciso se mandare o no una missione di osservazione per queste elezioni. Si mormora che la presenza di osservatori non cambierebbe nulla a delle elezioni, i cui risultati sono già conosciuti in anticipo! Sarebbe questa una ragione in più proprio per andarci.

Il parere di molti è che finché il regime ruandese non si sarà democratizzato, esso resterà sempre una minaccia per la stabilità della Regione dei Grandi Laghi e per il ritorno della pace nell’est della RDCongo.

Nel loro rapporto sulle elezioni legislative del 2008, gli osservatori europei avevano rilevato gravi infrazioni, compreso la manipolazione di urne. Sarebbe dunque controproduttivo e illogico che l’UE, uno dei maggiori finanziatori, si astenesse dal monitoring dell’attuale processo elettorale.

Il 9 febbraio, Human Rights Watch ha, in un comunicato, dichiarato che “con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali previste in Rwanda per agosto 2010, i membri dei partiti dell’opposizione sono oggetto di un numero sempre più crescente di minacce, aggressioni e intimidazioni”. Secondo l’Ong per la difesa dei diritti umani, alcuni membri delle FDU-Inkingi e del Partito Democratico dei Verdi sono stati vittime di gravi atti di intimidazione commessi da persone ed istituzioni prossime al governo e al partito al potere, il Fronte Patriottico Ruandese (FPR). Georgette Gagnon, direttrice della divisione Africa di Human Rights Watch, ha affermato che “il governo ruandese controlla già strettamente lo spazio politico” e che “questi incidenti non faranno che minacciare maggiormente la democrazia, scoraggiando ogni opposizione degna di questo nome dal partecipare alle elezioni”. In diverse opportunità, il governo rwandese si è servito di accuse di partecipazione al genocidio o di “ideologia genocidaria”, per prendere di mira i suoi oppositori e screditarli. HRW ha esortato il governo ad aprire delle inchieste su tutti questi incidenti, consegnarne i responsabili alla giustizia, evitare ogni forma di ingerenza sulle attività dei partiti di opposizione e a fare in modo che i loro militanti possano svolgere senza alcun timore le loro attività legittime.

Il 10 febbraio, in un comunicato stampa, l’osservatorio europeo per l’Africa centrale (EurAc) si stupisce e si preoccupa del fatto che l’UE non abbia ancora pianificato alcuna missione di osservazione per le prossime elezioni presidenziali in Ruanda, quando sul campo si stanno osservando inquietanti sviluppi. Lo spazio democratico resta molto ristretto e i militanti e candidati dell’opposizione subiscono e denunciano quotidianamente diverse forme di aggressione…

EurAc è convinto che l’invio di una Missione di Osservazione Europea (MOE) è primordiale: le conclusioni e raccomandazioni del rapporto finale della missione del 2008 giustificano e richiedono un controllo approfondito delle prossime scadenze elettorali.

L’instaurazione di una vera democrazia in Ruanda non solo è uno strumento di pace e di coesione sociale per il paese in quanto tale, ma costituisce anche un fattore determinante per la stabilità dell’intera regione. Perciò, le prossime elezioni presidenziali del Ruanda rappresentano un appuntamento a cui l’Unione Europea non dovrebbe mancare”.

2. IL RITORNO DI VICTOIRE INGABIRE

 Il 16 gennaio, dopo sedici anni di esilio nei Paesi Bassi, in Europa, Victoire Ingabire, presidente delle Forze Democratiche Unificate (FDU-Inkingi), un partito di opposizione non ancora riconosciuto in Ruanda, è arrivata a Kigali, la capitale, per presentare la sua candidatura alle elezioni presidenziali del mese di agosto 2010.

Appena arrivata, la Ingabire aveva dichiarato che era ritornata per liberare i Ruandesi “dalla paura, dalla povertà e dall’ingiustizia” e per richiedere il riconoscimento giuridico del partito. Pur riconoscendo il genocidio, ella critica i tribunali gacaca che qualifica di parziali ed inefficaci.

Poi, è andata a depositare una corona al Memoriale del genocidio dei Tutsi, situato sulla collina di Gisozi. “La strada della riconciliazione è ancora lunga. Questo Memoriale ricorda solamente il genocidio perpetrato contro i Tutsi, mentre ci sono stati anche dei massacri di Hutu”, ha affermato in una chiara allusione ai crimini commessi nel 1994 dai membri dell’ex-ribellione tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (FPR), oggi al potere. “Gli Hutu che hanno ucciso dei Tutsi devono comprendere che devono essere puniti. La stessa cosa vale anche per i Tutsi che hanno ucciso degli Hutu”, ha detto, aggiungendo che i ruandesi non potranno arrivare ad una vera riconciliazione se si continua a rispettare la memoria delle sole vittime Tutsi, quando ci si dovrebbe ricordare anche degli Hutu che sono stati massacrati in tali violenze. Queste dichiarazioni hanno scatenato il furore delle associazioni delle vittime del genocidio e delle personalità prossime al potere. L’eventuale candidata è stata accusata di propagare il negazionismo e il suo corollario, la teoria del “doppio-genocidio” che avrebbe colpito simmetricamente Tutsi e Hutu.

Tuttavia, sebbene l’attuale regime non lo voglia riconoscere, secondo le informazioni raccolte presso i superstiti del genocidio e i vicini del memoriale di Gisozi, i corpi che vi riposano sono quelli delle vittime tutsi e hutu uccise tra aprile e luglio 1994 dagli interhamwe nella capitale Kigali e degli hutu assassinati dal FPR durante il genocidio e dopo la presa del potere.

Vetrina dell’orrore commesso in Ruanda e scatenato dall’assassinio dei due Presidenti rwandese e burundese e dei membri dele loro delegazioni, il memoriale di Gisozi, luogo di memoria, diventa sempre più un luogo di interrogazioni e di inquietudini per i ruandesi superstiti hutu e tutsi.

Interrogati su questo argomento, alcuni tutsi che hanno preferito mantenere l’anonimato, si sono detti molto disturbati e affermano che si tratta di un gioco politico che finirà col tempo. I più temerari ammettono che Gisozi è una dolorosa spina nel piede della riconciliazione nazionale che tarda a realizzarsi.

Kalisa, un insegnante tutsi sopravvissuto al genocidio, afferma: “Che questo Memoriale di Gisozi sia utilizzato per uso politico a consumazione esterna, ne convengo. Tuttavia, è inconcepibile che al mio vicino hutu, Kabango, che mi ha protetto e i cui familiari sono stati assassinati e i loro corpi riposano in questo Memoriale, si dica che questo monumento è riservato ai tutsi. È un’ingiustizia che ci costerà caro. Detto sottovoce, è una menzogna”.

E Kabango, facendo eco a Kalisa, bisbiglia: “Oggi non posso piangere i miei, ma nessuno mi impedirà di riconoscere che sono sepolti là! Soffro in silenzio. Aspetto il giorno della luce”.

Il 3 febbraio, Victoire Ingabire è stata attaccata a Kigali, la capitale, da un gruppo di persone che hanno percosso anche il suo assistente Joseph Ntawagundi. La Ingabire è stata ferita e derubata della sua borsetta con dentro i suoi documenti, fra cui il passaporto e la carta di identità che gli era appena stata rilasciata il giorno anteriore. I membri dei servizi di sicurezza presenti sul luogo non hanno fatto nulla per fermare l’attacco. L’aggressione sembra essere stata ben organizzata e coordinata, lasciando pensare che sia stata pianificata in anticipo.

Il delegato delle FDU per l’informazione, Emmanuel Mwiseneza, ha affermato in un comunicato che “non c’è dubbio che l’aggressione sia un atto imputabile allo stato, perché avvenuta all’interno del recinto di un edificio dell’amministrazione”.

“Questo incidente mostra il vero volto del regime Kagame, un regime dittatoriale che non sopporta un’altra voce discordante”, ha dichiarato Victoire Ingabire, aggiungendo: “Il FPR che ha una grande responsabilità in ciò che è accaduto in Ruanda dal 1990 (inizio della guerra di aggressione del FPR a partire dall’Uganda), vuole tuttavia tenerla nascosta”.

Il 6 febbraio, Joseph Ntawangundi, l’assistente di Victoire Ingabire, ritornato con lei dall’esilio, è stato arrestato a Kigali, secondo Radio Ruanda, in seguito alla sentenza di un giudizio reso nel 2007 dal tribunale gacaca di Ngoma, nella provincia dell’est. Tale tribunale l’aveva condannato a 19 anni di prigione per partecipazione al genocidio perpetrato contro i Tutsi nel 1994. In un comunicato pubblicato l’8 febbraio, la presidente del partito FDU afferma che, nel momento dei fatti, il suo assistente non si trovava in Ruanda . “Durante il genocidio, Ntawangundi seguiva, per conto della Confederazione internazionale dei sindacati liberi, uno stage di formazione di due mesi in Svezia. Poco dopo, era ritornato in Kenya. Non poteva dunque essere sul luogo del crimine imputatogli”, scrive la Ingabire.

 L’8 febbraio, il presidente Paul Kagame ha accusato pubblicamente la Ingabire di revisionismo e di incitamento all’odio razziale, rimproverandole peraltro la sua presenza “illegale” nel paese.

 Il 10 febbraio, Victoire Ingabire, potenziale candidata alle prossime elezioni presidenziali, è stata interrogata dalla polizia senza che nessuna accusa sia stata formulata nei suoi riguardi.

Il 23 marzo, Victoire Ingabire è stata intercettata dalla polizia all’aeroporto di Kigali mentre stava prendendo l’aereo per i Paesi Bassi dove pensava riposarsi alcune settimane e le è stata comunicata l’interdizione di uscire dal territorio ruandese per rispondere ad una ulteriore (la quarta) convocazione della polizia. Un’inchiesta è in corso. L’oppositrice sarebbe accusata di ideologia genocidaria, di divisionismo e di collaborazione con le FDLR. L’oppositrice denuncia l’assillo di cui è vittima l’opposizione. “Stanno facendo di tutto per impedire all’opposizione di partecipare alle elezioni”, ella ha dichiarato.

3. ATTENTATI A KIGALI

Il 19 febbraio, intorno alle 20H00 alcune bombe sono esplose in tre luoghi diversi della capitale Kigali. Due persone sono rimaste uccise e altre 18 ferite, fra cui cinque gravemente. Questi attacchi miravano dei luoghi pubblici abitualmente molto frequentati nel fine della settimana: la stazione dei taxi di Nyabugogo, il ristorante “da Venant” e un edificio commerciale in centro città. La polizia ruandese ha arrestato tre sospetti che apparterrebbero “agli Interahamwe”, milizia estremista hutu degli anni 1990.

 Il 5 marzo, sedici persone sono state ferite in due nuovi attentati alla bomba, avvenuti quasi simultaneamente nella capitale ruandese Kigali. Il primo attacco ha avuto luogo alle 19H20 locali, a Kinamba, un luogo dove gli automobilisti fanno lavare i loro veicoli e che si trova sulla strada che conduce al memoriale del genocidio di Gisozi. 4 i feriti. La seconda esplosione ha avuto luogo poco dopo, vicino alla stazione dei taxi di Kimironko. 12 i feriti. Se per gli attentati del 19 febbraio il governo aveva sospettato degli “Interahamwe” come responsabili di tali “atti di destabilizzazione”, il governo accusa ora due ex ufficiali di alto rango, rifugiati in Sud Africa, il generale Faustin Kayumba Nyamwasa e il colonnello Patrick Karegeya. Il generale Nyamwasa, ex capo di Stato Maggiore dell’esercito ed ex ambasciatore in India, era fuggito dal Rwanda la settimana anteriore, dopo essere stato interrogato una prima volta dalla polizia, in occasione di un incontro degli ambasciatori rwandesi nel mondo. Il colonnello Karegeya, ex capo dei servizi segreti, vive in Sud Africa da molto tempo. Questi due tutsi anglofoni, provenienti dalla diaspora twandese in Uganda, sono degli ex-ufficiali del Fronte Patriottico ruandese (FPR).

Il generale Kayumba Nyamwasa, personaggio chiave della conquista del potere da parte del FPR ed ex capo di stato maggiore dell’esercito, sarebbe sospettato di volere rovesciare il generale Kagame con un colpo di stato. Sarebbe questa la ragione per la quale il generale Kayumba avrebbe subito un serrato interrogatorio preso la sede dei servizi segreti al suo arrivo a Kigali per la conferenza annua degli ambasciatori. E’ dopo tale interrogatorio che Kayumba ha preso la fuga, prima che alcune ore più tardi il ministero degli affari esteri annunciasse che era stato sospeso dalle funzioni di ambasciatore e che era ricercato dalle autorità per i “motivi criminali”, la cui natura non è stata precisata. Il generale Nyamwasa è anche sulla lista delle persone ricercate da Interpol nel dossier relativo all’attentato terroristico del 6 aprile 1994 che è costato la vita al presidente di allora, Juvenal Habyarimana e che ha scatenato il genocidio. Finora Kayumba Nyamwasa godeva dell’immunità che gli conferiva il suo statuto di diplomatico. Non avendo più questo statuto, ora può essere arrestato. La situazione rischia di diventare molto complicata per Kagamé, dato che, se fosse arrestato e processato, il generale Nyamwasa potrebbe fare delle rivelazioni compromettenti sul ruolo di Kagame prima, durante e dopo il genocidio in Ruanda e sulle guerre di invasione della RDCongo. È ciò che il regime di Kigali cerca di evitare ad ogni costo, lanciando una caccia all’uomo senza tregua.

Il 6 marzo, le autorità ruandesi hanno annunciato l’arresto in Burundi e l’estradizione verso il Ruanda di un oppositore ruandese, Déo Mushayidi, accusato da Kigali di fare parte dei mandanti dei recenti attentati che hanno provocato due morti e vari feriti nella capitale ruandese. Tutsi ed ex quadro dirigente del Fronte Patriottico Ruandese (FPR), il partito del presidente Paul Kagame, Déo Mushayidi era fuggito dal Ruanda nel 2000, quando era presidente dell’associazione ruandese dei giornalisti (ARJ). Arrivato in esilio in Europa, ha militato in vari partiti dell’opposizione ruandese, prima di creare, l’anno scorso, la sua nuova formazione, il Patto di Difesa del Popolo (PDP). Mushayidi è la terza persona accusata dal governo ruandese di essere dietro gli ultimi attentati di Kigali.

4. LA VISITA DEL PRESIDENTE FRANCESE, NICOLAS SARKOZY

Il 25 febbraio, in occasione di una breve visita a Kigali, Nicolas Sarkozy ha voluto, secondo le sue proprie parole, “girare la pagina”, quella delle pessime relazioni diplomatiche tra Parigi e Kigali culminate, nel 2006, nella rottura. Kigali aveva infatti deciso unilateralmente di rompere le relazioni diplomatiche con la Francia, in seguito all’emissione di 9 mandati di arresto contro prossimi collaboratori di Paul Kagame, indiziati dal giudice francese Louis Bruguière come implicati nell’attentato terroristico del 6 aprile 1994 contro l’aereo presidenziale. Per inaugurare questo nuovo capitolo, il capo dello stato francese aveva il dovere di pronunciare parole forti.

Sarkozy si è recato dapprima al Memoriale del genocidio per una visita di una mezz’ora. Dopo avere depositato una corona, Nicolas Sarkozy ha visitato il museo durante venti minuti. A due riprese, Sarkozy è stato apostrofato dalla guida del museo sul ruolo della Francia negli avvenimenti del 1994. Davanti ad una fotografia di un veicolo militare fancese che passa davanti ad un gruppo di civili armati di fucili, commentata dalla frase “la Francia ha avuto un ruolo armando e formando le forze armate ruandesi”, la guida ha detto: “Qui, è la responsabilità dei francesi”. Nicolas Sarkozy è rimasto muto. La stessa guida gli ha mostrato poi una foto dell’ex-segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ricordandogli che lui ha chiesto “perdono” per gli errori della comunità internazionale nel 1994. Ancora una volta, il presidente francese non ha risposto nulla. Il regime di Paul Kagamé accusa infatti la Francia di complicità nel genocidio, per avere sostenuto il regime del suo predecessore Juvenal Habyarimana. Parigi ha sempre respinto queste accuse. Sul libro d’oro, il presidente Sarkozy ha scritto: “In nome del popolo francese, mi inclino davanti alle vittime del genocidio tutsi. L’umanità conserverà per sempre la memoria di questi innocenti e del loro martirio”.

Nella conferenza stampa col presidente Paul Kagamé, Sarkozy ha riconosciuto che “sono stati commessi degli errori di apprezzamento e degli errori politici che hanno avuto delle conseguenze assolutamente drammatiche”. Nicolas Sarkozy non ha voluto chiedere perdono al popolo ruandese, come l’hanno fatto il Belgio, gli Stati Uniti e le Nazioni Unite perché, ai suoi occhi, il fallimento fu innanzitutto collettivo: “Ciò che è accaduto qui, in Ruanda, negli anni 90, è una disfatta per l’umanità tutta intera. Ciò obbliga la comunità internazionale, fra cui la Francia, a riflettere sui suoi errori che le hanno impedito di prevenire e di fermare questo crimine spaventoso”. Sarkozy non accetta l’idea di una responsabilità specifica di Parigi, malgrado l’attivo sostegno militare portato al regime del presidente hutu Habyarimana. Esclude pure ogni idea di premeditazione e, a fortiori, di complicità con gli assassini, denunciando piuttosto “una forma di accecamento” nell’analisi della situazione. A proposito dell’operazione “Turquoise”, lanciata da Parigi nel giugno 1994, Nicolas Sarkozy ha stimato che era sopraggiunta “troppo tardi” per poter salvare un maggior numero di vite. Un modo per difenderne il principio, mentre Kigali l’ha sempre criticata.

“Vogliamo che i responsabile del genocidio siano ritrovati e puniti. Coloro che hanno fatto questo, ovunque si trovino, devono essere ritrovati e puniti”, ha dichiarato Sarkozy, aggiungendo: “Ce ne sono in Francia? Spetta alla giustizia dirlo. Abbiamo appena rifiutato l’asilo politico ad una delle persone interessate e c’è una procedura giudiziaria in corso”, ha indicato, facendo riferimento, senza nominarla, ad Agathe Habyarimana, la vedova del defunto presidente Juvenal Habyarimana, assassinato il 6 aprile 1994 in un attentato contro il suo aereo.

La visita di Sarkozy, la prima di un presidente francese dal genocidio del 1994, interviene tre mesi dopo la ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.

Gli sforzi di riconciliazione dispiegati dal presidente Sarkozy si inseriscono nel quadro della strategia dell’esagono per assicurare la sua presenza nei Grandi Laghi in questo ultimo periodo, in cui questa regione è sempre più corteggiata dagli Stati Uniti d’America e dalle potenze emergenti come la Cina, l’India ed altre. Senza il Ruanda, molto influente nella regione, Parigi non potrebbe far nulla nell’immensa RDCongo vicina, né far valere il proprio interesse per le risorse del suo ricco sottosuolo, particolarmente l’uranio. Se l’accusa del giudice francese Jean-Louis Bruguière, fine 2006, contro l’attuale presidente Paul Kagamé, come istigatore dell’attentato mortale contro il suo predecessore, considerato come l’elemento detonatore del genocidio, era stata interpretata da Kigali come un affronto e aveva provocato la rottura delle relazioni con Parigi, c’è da temere che la riconciliazione franco-ruandese si attui proprio al prezzo di un soffocamento progressivo dell’inchiesta sull’attentato del 1994. Ma il diritto alla verità sugli avvenimenti del 1994 deve prevalere, in nome dell’indipendenza della giustizia e, in primo luogo, in nome della memoria delle tante vittime cadute prima, durante e dopo il genocidio di aprile-luglio 1994.

Secondo Luc Lamprière, di Oxfam Francia, Jean-Marie Fardeau, di Human Rights Watch e Michel Roy, di Soccorso Cattolico, si può certamente ritenere positivo il “ristabilimento” delle relazioni diplomatiche franco-ruandesi, ma ci si aspetta soprattutto una reale “normalizzazione” delle relazioni tra i due Paesi, per poter affrontare tanto gli argomenti positivi che le questioni che rimangono ancora problematiche e di cui non si vorrebbe sentire parlare.

Si potrà sottolineare l’efficacia della ricostruzione delle istituzioni statali dopo il genocidio, la professionalizzazione dei funzionari, le iniziative per lottare contro la corruzione, lo sviluppo economico – almeno a livello della capitale – e la promozione attiva della partecipazione delle donne nella vita politica.

Ma bisognerà anche puntare il dito contro le gravi minacce che pesano sulla società civile, la stampa e lo spazio democratico. Bisognerà riconoscere che una legge che definisce vagamente “l’ideologia genocidaria” permette, di fatto, di reprimere anche il minimo inizio di dibattito politico; che i candidati alle prossime elezioni sono oggetto di diverse intimidazioni; che i rari organi di stampa indipendente sono oggetto di sistematiche pressioni politiche, fiscali o legislative, che le popolazioni contadine – l’85% dei ruandesi – subiscono attualmente l’imposizione di una politica governativa di “rivoluzione verde” disadattata alla realtà dell’ambiente rurale rwandese e dell’agricoltura di sussistenza, obbligandole a dedicarsi ad una cultura di esportazione, decisa dallo stato in funzione di ogni regione, rendendole molto vulnerabili alle variazioni del mercato e del clima.

Non si dovrebbe neppure dimenticare le popolazioni congolesi. Si dovrebbe indicare chiaramente a Paul Kagame che la comunità internazionale si aspetta, da parte sua, delle misure concrete per mettere un termine agli atteggiamenti dei dignitari ruandesi che continuano a sostenere dei gruppi armati nell’est della RDCongo e a beneficiare dello sfruttamento e della commercializzazione delle risorse minerarie del suo sottosuolo. Gli si dovrebbe esigere anche di contribuire attivamente agli sforzi internazionali di disarmo volontario dei ribelli hutu ruandesi ancora attivi nei Kivu e di offrire a quelli fra di loro che non hanno partecipato al genocidio delle garanzie di una vera reintegrazione socioeconomica in Ruanda e nuove prospettive di uno spazio politico. Per coloro che hanno presumibilmente partecipato al genocidio, il Ruanda deve assicurar loro una giustizia equa. Inoltre, si dovrebbe aiutare il Ruanda ad intraprendere la via del multipartitismo e di un vero dibattito politico mediante l’avvio di un vero dialogo interruandese inclusivo, che possa dare un futuro di pace al Paese e all’intera Regione.

Secondo Hervé Cheuzeville, diventa sempre più difficile rievocare la tragedia ruandese. Quando lo si fa, si corre il rischio di essere tacciati di “negazionismo”, “revisionismo”, “divisionismo” da parte dei porta voce del dittatore di Kigali, tanto in Ruanda che in Francia.

Scrivendo nel libro d’oro del memoriale del genocidio la seguente frase: “In nome del popolo francese, mi inclino davanti alle vittime del genocidio dei Tutsi”, il presidente francese ha “tribalizzato” la commemorazione delle vittime del genocidio.

Esprimendosi in tal modo, Nicolas Sarkozy sembra avere dato ragione a Dominique Sopo, presidente di SOS Razzismo, che in occasione del processo che l’associazione intentò contro il giornalista Pierre Péan, autore di un noto libro sul genocidio ruandese, osò dichiarare: “Rievocare il sangue degli Hutu è sporcare il sangue dei Tutsi”. Il sangue dei Tutsi varrebbe forse di più di quello degli Hutu? Il presidente francese avrebbe dovuto rendere omaggio alle vittime del genocidio ruandese: ciò avrebbe incluso tutte le vittime, fossero tutsi, hutu o twa.

Secondo Hervé Cheuzeville, infatti, in Ruanda c’è stato un genocidio perpetrato da assassini che appartengono ai diversi campi e di cui furono vittime dei ruandesi di ogni origine. Se il Ruanda vuole curare le sue profonde piaghe, occorrerà che siano riconosciute e commemorate tutte le vittime della tragedia che l’ha colpito. Nessuno ha il monopolio della sofferenza e della disgrazia.

Spesso si mette in causa il ruolo della Francia in Ruanda, arrivando fino a rievocare l’implicazione diretta di alcuni responsabili francesi dell’epoca nel genocidio e ci si aspetterebbe che, come Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti e di Guy Verhofstadt, il primo ministro belga dell’epoca, anche la Francia presentasse le sue scuse. Questo discorso non è nuovo, è quello di Paul Kagame e dei dirigenti ruandesi attuali sin dal loro arrivo al potere nel 1994.

È innegabile che la Francia abbia commesso degli errori in Ruanda. Ma le affermazioni di Paul Kagame e dei suoi sostenitori francesi secondo cui la Francia avrebbe direttamente e deliberatamente partecipato alla preparazione e all’esecuzione del genocidio ruandese sono profondamente inaccettabili.

Paul Kagame che ha cominciato la guerra e ha partecipato al genocidio, sembra inoppugnabile. Una certa stampa e una certa rete di attivisti, vorrebbero addirittura presentarlo come l’uomo che ha messo fine al genocidio. Nulla di più falso.

A questo proposito, occorre ricordare, per la memoria, la concatenazione degli avvenimenti che hanno provocato il dramma ruandese:

– Il governo del presidente Habyarimana era, fino ad aprile 1994, il governo legale del Ruanda, internazionalmente riconosciuto. Quest’ultimo non era il peggiore del continente africano. Non dimentichiamo che nel 1990, la maggioranza dei regimi africani erano ancora dei regimi militari o dei sistemi con partito unico. È di quell’anno il discorso di François Mitterrand pronunciato a La Baule, alla presenza di Habyarimana. In quel discorso, il presidente Mittérand condizionava l’aiuto esterno alla democratizzazione dei Paesi africani. Non c’era dunque nulla di anormale che il governo francese intrattenesse, in quel periodo, delle relazioni col governo ruandese.

– La guerra e i massacri non sono cominciati nell’aprile 1994, come lo si ripete troppo spesso, ma nell’ottobre 1990. Bisogna ricordare che la guerra cominciò quando delle unità dell’esercito ugandese varcarono la frontiera tra l’Uganda e il Ruanda ed attaccarono delle posizioni dell’esercito ruandese. Queste unità ugandesi, composte in gran parte da figli di rifugiati ruandesi, stabiliti in Uganda dalla fine degli anni 50, avevano formato il Fronte Patriottico Ruandese, mascherando l’implicazione ugandese in questa invasione. E’ così che i primi massacri furono commessi. Essi erano diretti contro le popolazioni del nord del Ruanda e furono commessi dagli elementi del FPR che nessuno conosceva ancora. Il FPR era diretto da Fred Rwigema che, prima dello scoppio della guerra era vice-ministro della difesa dell’Uganda. In reazione a ciò che poteva essere visto legittimamente, all’epoca, come un’aggressione militare proveniente da un paese vicino, non era anormale che la Francia rispondesse favorevolmente alla richiesta di aiuto formulata dal governo legittimo di un paese amico.

– Durante tutta quella guerra, il governo ruandese è stato sottomesso ad un embargo dell’ONU sulle forniture di armamento, mentre l’Uganda, sostenuto dagli USA e Inghilterra, ha violato costantemente il suddetto embargo, fornendo segretamente al suo alleato FPR grandi quantità di armi e munizioni e permettendogli di mantenere dei campi base sul suo territorio.

– Durante la guerra, sono stati commessi dei massacri principalmente contro le popolazioni del nord Ruanda, in maggioranza hutu.

– In piena guerra e sotto la pressione della comunità internazionale e, in particolare, della Francia, il presidente ruandese Juvenal Habyarimana ha accettato di introdurre il multipartitismo.

– Il presidente Habyarimana ha firmato gli accordi di Arusha che prevedevano la divisione del potere ed elezioni libere e democratiche.

– In virtù di questi accordi, la Francia ha ritirato le sue truppe da Ruanda nel 1993.

– È il presidente ugandese Museveni, “padrino” del FPR, che ha convocato il vertice di Dar es-Salam del 6 aprile 1994 e che ne ha ritardato deliberatamente la chiusura. È questo ritardo che ha provocato il decollo tardivo da Dar es-Salam dell’aereo del presidente Habyarimana, in cui viaggiava anche il suo omologo burundese. E’ per questo che l’aereo presidenziale dovette iniziare la sua procedura di atterraggio all’aeroporto di Kigali quando era già notte. Questo arrivo tardivo ha facilitato il lavoro di coloro che hanno perpetrato l’attentato contro l’aereo. L’attentato costò la vita ai due presidenti, a vari ministri ruandesi e burundesi, al capo di Stato Maggiore dell’esercito ruandese e all’equipaggio francese del Falcon 50. E’ il primo attentato della storia in cui sono periti due capi di stato in esercizio e per il quale non si è aperto nessuna inchiesta internazionale.

– L’attentato contro l’aereo presidenziale è stato seguito immediatamente da due avvenimenti: l’inizio dei massacri a Kigali e la rottura, da parte del FPR, del cessate il fuoco allora in vigore. Il FPR scatenò immediatamente un’offensiva generale contro le Forze Armate ruandesi. I massacri di Kigali miravano i Tutsi e gli oppositori al governo, essenzialmente Hutu. Questi massacri si distesero, nei giorni e settimane seguenti, alla quasi totalità del territorio ancora tenuto dalle forze del governo di Kigali. Tuttavia, mentre si stavano commettendo questi spaventosi massacri in zona governativa, altri, altrettanto spaventosi, venivano commessi dagli elementi del FPR nella loro avanzata verso Kigali.

– Fin dall’inizio dei massacri di Kigali, nell’aprile 1994, la Francia aveva chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di rinforzare il contingente dei caschi blu presenti in Ruanda. Gli Stati Uniti si opposero a questa richiesta ed esigirono, al contrario, il ritiro delle forze dell’Onu. Durante questi drammatici cento giorni, la Francia ha continuato a chiedere l’invio di una forza internazionale che avrebbe permesso l’arresto dei massacri. È solamente alla fine di giugno che la voce della Francia fu ascoltata e che l’operazione Turquoise potè avere luogo, troppo tardi, purtroppo, per le centinaia di migliaia di vittime. L’operazione militare coprì solamente una piccola porzione del territorio ruandese, il sud-est del paese. Sebbene troppo tardiva e troppo limitata nel tempo e nello spazio, permise malgrado tutto di mettere fine ai massacri in quella zona. Certo, l’arrivo dei soldati francesi non mise un termine immediato e assoluto alle carneficine e si può certamente lamentarlo. Gli Stati Uniti e l’ONU portano dunque una pesante responsabilità negli avvenimenti di aprile – luglio 1994: se il contingente dei caschi blu fosse stato rinforzato, come chiedeva la Francia, invece di essere ridotto, l’ampiezza dei massacri e la loro propagazione sarebbero state certamente più limitate.

– Purtroppo, dopo la vittoria del FPR, i massacri sono continuati: le forze del nuovo regime prendevano di mira soprattutto gli Hutu. Si ricorderà, tra l’altro, la tragedia del campo profughi di Kibeho, dal 18 al 22 aprile 1995, quando l’esercito di Paul Kagame massacrò 8.000 sfollati civili.

– A partire dal 1996, la tragedia ruandese fu esportata al di là delle frontiere, quando l’esercito di Paul Kagame invase lo Zaire vicino per dare la caccia ai rifugiati ruandesi che vi avevano trovato rifugio. Secondo le cifre del HCR, tra settembre 1996 e maggio 1997, sono 200 000 i rifugiati hutu rwandesi uccisi durante questa offensiva, la maggior parte massacrati dall’esercito Patriottico ruandese, a maggioranza tutsi. Tali massacri sono stati denunciati il 12 luglio 1997 dal rapporto “Garreton”, della commissione delle Nazioni Unite incaricata di indagare sui massacri dei rifugiati hutu rwandesi nella RDCongo (ex Zaire). E’ necessario ricordare anche i milioni di morti congolesi, vittime dirette o indirette di questa guerra che, iniziata nel 1996 non è ancora terminata. Questa guerra è una conseguenza diretta degli avvenimenti del Ruanda del 1990-94.

C’è la verità storica (in cui i fatti sono certamente evidenti) e la verità politica.

In meno di 3 ore passate insieme, la verità politica ha portato i due capi di stato a “saldare il passato”, doloroso e teso, tra i due paesi: i due hanno rapidamente dimenticato che, dal lato rwandese, dei cittadini francesi ben identificati dal potere di Kigali (vedere rapporto Mucyo) “hanno partecipato” al genocidio dei Tutsi in Ruanda e che, dal lato francese, dei cittadini francesi ben conosciuti sono morti vittime, gli uni di un attentato terroristico e gli altri, di un massacro commesso nel quadro di una epurazione etnica nei confronti di Rwandesi hutu. Nel contesto della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Kigali e Parigi, i due Capi di Stato hanno voluto far credere che la verità politica cancella – almeno durante il tempo del loro regno – la verità storica.

A proposito di questa ultima, Kigali ha già ordinato ai suoi storici di riscrivere la storia del Ruanda. I turiferari del regime hanno cominciato a cancellare dai libri di storia alcuni fatti. Non vogliono che l’umanità sappia: che i re del Ruanda monarchico, i nonni di Paul Kagame, avevano dei mercati di schiavi in cui vendevano gli hutus ricalcitranti o ribelli agli schiavisti, per immetterli sul mercato triangolare che li conduceva verso le Americhe; che Kalinga, il tamburo dinastico e simbolo del potere monarchico tutsi, era ornato di spoglie (testicoli) dei re hutu sconfitti; che sotto la monarchia, l’ubuhake – sistema di servitù – consisteva a ridurre gli hutu al servizio della nobiltà tutsi; che sotto la monarchia, tutto il potere (politico, militare, economico, culturale…) era nelle mani della sola nobiltà tutsi; che, sotto la monarchia, l’umiliazione, la demonizzazione, il bastone… erano il premio riservato ad ogni hutu…

Dopo aver deciso di “riconciliare le nazioni e girare la pagina”, bisognerebbe aiutare gli Hutu e i Tutsi del Ruanda a “saldare il loro passato”. Tutti i ruandesi portano le stimmate di ciò che è accaduto dal 1990 fino adesso, “tracce assolutamente indelebili e inaccettabili”. Anche i popoli dei Grandi Laghi ne hanno sofferto abbondantemente. Perciò molti sono convinti della necessità di un dialogo inter-ruandese inclusivo. Stranamente, la richiesta di questo dialogo, che sembrerebbe semplice e ragionevole, non è presa in considerazione non solo dal potere ruandese, ma nemmeno dalla Comunità internazionale. Tuttavia, anche se fragile, l’esempio del Burundi, che ha la stessa composizione etnica del Ruanda, dimostra che la democrazia può offrire uno spazio sufficiente anche alle minoranze. Da questo dialogo riconciliatore potrebbe emergere la verità storica. Dopo la riconciliazione delle Nazioni, la verità deve essere al servizio di una giustizia serena per facilitare, da un lato, la riconciliazione dei Tutsi e degli Hutu ruandesi e, dall’altro, la riconciliazione del popolo ruandese con i popoli dei Grandi Laghi d’Africa.

5. L’ARRESTO DI AGATHE HABYARIMANA IN FRANCIA

Il 2 marzo, Agathe Habyarimana, la vedova del presidente ruandese assassinato nel 1994, è stata brevemente arrestata in Francia su richiesta di Kigali che ne chiede la sua estradizione per il suo presunto ruolo nel genocidio. Nel pomeriggio, è stata tuttavia rimessa in libertà sotto controllo giudiziario, nell’attesa della sua comparizione davanti alla Corte d’Appello di Parigi che dovrà deliberare sulla richiesta di estradizione da parte del Ruanda.

Agathe Habyarimana è stata interpellata verso le 08H00, al suo domicilio a Courcouronnes nell’Essonne, dove risiede da 12 anni, in seguito ad un mandato di arresto internazionale emesso dalle autorità ruandesi per genocidio. Kigali l’accusa di avere partecipato alla pianificazione e all’organizzazione del genocidio. E’ presentata spesso come un membro del “akazu”, il primo cerchio del potere hutu, ciò che ella nega. Il mandato di arresto internazionale nei suoi confronti contiene accuse di genocidio, di complicità di genocidio, di associazione di malfattori in vista della realizzazione del genocidio e di crimini contro l’umanità. L’interpellanza di Agathe Habyarimana è sopraggiunta cinque giorni dopo la visita di Nicolas Sarkozy a Kigali. Per il suo avvocato, “è evidente il legame tra i due fatti. La richiesta di estradizione da parte di Kigali data del mese di novembre ed è stata evidentemente riattivata al ritorno di Nicolas Sarkozy dalla sua visita in Ruanda”. Durante la sua visita, il presidente francese aveva affermato che “tutti i responsabile del genocidio devono essere ritrovati e puniti (..) ovunque si trovino”, pure affermando di attenersi alla “indipendenza della giustizia”. Rievocando il caso della Habyarimana, senza citarla esplicitamente, aveva ricordato che Parigi aveva “rifiutato l’asilo politico ad una delle persone interessate”. Si può ben pensare che l’aver messo sotto controllo giudiziario la vedova di Habyarimana, è piuttosto un colpo politico da parte di Parigi e Kigali e un diversivo per deviare l’opinione internazionale dalle manovre politico-finanziarie in corso nella regione dei Grandi-Laghi. Secondo Philippe Meilhac, l’avvocato della Habyarimana, la domanda di estradizione risale al 19 novembre 2009, ma non era stata ancora messa in atto. Formulata subito dopo l’arrivo in Ruanda dei giudici istruttori Fabienne Pous e Michèle Ganascia, la richiesta di estradizione mirerebbe soprattutto a fare pressione sui magistrati che istruiscono in Francia una querela contro la Habyarimana, depositata nel 2007 dal Collettivo delle parti civili per il Ruanda.

Kigali accusa Agathe Habyarimana di avere partecipato alla pianificazione e all’organizzazione del genocidio del 1994. Ancora una volta, il regime di Kigali insiste sull’elemento della pianificazione del genocidio.

Bisogna notare che, dalla sua creazione, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (TPIR), con sede ad Arusha in Tanzania, ha sempre cercato le prove della pianificazione del genocidio da parte del regime di Habyarimana. Ma, anche se il TPIR ha da sempre giudicato personalità hutu, i diversi procuratori che si sono succeduti l’uno all’altro non sono riusciti a dimostrare che la pianificazione del genocidio fosse opera degli imputati. Né il sud africano Goldstone, né la canadese Louise Arbour, né la svizzera Carla Del Ponte e nemmeno il gambiano Hassan Bubacar Jallow, ancora in servizio, nessuno ha potuto fornire alla Corte delle prove di pianificazione del genocidio da parte dei dignitari del regime Habyarimana o dei suoi collaboratori. Ben di più, tutte le persone già giudicate sono state assolte dall’accusa di “intesa in vista di commettere il genocidio.”

Il 18 dicembre 2008, il colonnello Théoneste Bagosora, presentato fino ad allora come il “cervello del genocidio”, fu assolto dall’accusa “di intesa in vista di commettere il genocidio” e, quindi, scagionato, insieme a tre co-imputati, di pianificazione del genocidio.

Il 16 novembre 2009, anche Protais Zigiranyirazo, fratello di Agathe Habyarimana, presentato dall’accusa come la principale figura del cerchio presidenziale che aveva pianificato il genocidio, fu assolto da tutte le accuse e rimesso in libertà dalla Corte d’appello del TPIR.

Sembra dunque che, contrariamente al TPIR, sia il procuratore del Ruanda a detenere le prove della pianificazione del genocidio. Come comprendere che le autorità ruandesi abbiano gelosamente custodito le prove di pianificazione del genocidio da parte di Agathe Habyarimana e che non le abbiano messe a disposizione del procuratore del TPIR che avrebbe potuto farla arrestare? Quali elementi nuovi hanno ottenuto le autorità di Kigali per provare la pianificazione del genocidio da parte della Habyarimana e a cui il Procuratore del TPIR non ha avuto finora accesso per condannare il colonnello Bagosora e lo stesso fratello della Signora Habyarimana, Protais Zigiranyirazo?

Non resta allora che constatare che, se dopo 15 anni di attività del TPIR, tale tribunale non ha potuto ottenere nessun elemento di prova della pianificazione del genocidio da parte degli imputati hutu finora giudicato, si dovranno seguire allora altre piste, probabilmente quelle che conducono a Paul Kagamé, come indicato dalle inchieste del giudice spagnolo Merelles e del giudice francese Bruguière. Del resto, un ex procuratore generale del TPIR, Carla Del Ponte, era stata costretta dagli americani a dimettersi per il fatto di interessarsi troppo del ruolo di Kagame nell’attentato del 6 aprile 1994 contro l’aereo presidenziale, considerato come l’elemento detonatore del genocidio. Il generale Kagamé, attuale Capo dello Stato ruandese, sapendosi messo in causa nell’attentato terroristico, che è costato la vita al suo predecessore e che segnò l’inizio del genocidio, moltiplica le iniziative per tentare di procurarsi una verginità politica e camuffare il suo ruolo nel genocidio. Fin dal suo arrivo al potere, il generale Kagame non ha mai cessato di servirsi del genocidio, malgrado la sua implicazione, come fondo di commercio per coprire e giustificare tutti i suoi crimini commessi contro altri ruandesi (particolarmente il massacro di più 500.000 rifugiati hutu ruandesi in Congo) e contro i congolesi stessi (più di 6 milioni).

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Sogno, ebbra di disperazione
Ma anche, ebbra di speranza
Un giorno radioso per il mio popolo”
(Perpetue Kassy).
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