LA BALCANIZZAZIONE DELLA R.D.CONGO

 Di Guy De Boeck – Un dossier della rivista “Dialogue”, luglio 2011

La parola “balcanizzazione” è molto spesso usata da alcuni commentatori dell’attualità, africana in generale e congolese in particolare, per descrivere piani o progetti che hanno come punto comune il controllo economico – più o meno accompagnato da un controllo politico – di zone interessanti del continente africano, a scapito dello Stato che dovrebbe esercitarvi la sua sovranità.

Nella sua versione più elaborata, il discorso sulla “balcanizzazione del Congo”, denuncia l’esistenza di un vero piano concertato tra le potenze economiche dominanti del mondo, secondo il quale, dietro l’aspetto visibile della storia, ci sarebbe inesorabilmente un piano marcato da date stabilite secondo una “intenzione nascosta”.

La parola è ben scelta?  

Il termine balcanizzazione entra in modo durevole nel vocabolario politico dopo l’adozione dei trattati consecutivi alla prima guerra mondiale, per designare il processo di frammentazione di unità politiche e geografiche di una certa estensione, che già esistevano in precedenza, in una moltitudine di Stati più piccoli, con una viabilità più o meno precaria, con lo scopo di sfruttare le divisioni così create per diminuirne la forza e poter manipolarle meglio.

Per arrivare all’indebolimento e alla manipolazione si utilizza sempre una sola leva: suscitare e incoraggiare particolarismi e micro-nazionalismi per suddividere un grande insieme in entità più piccole, ma ciascuna avendo tutti gli attributi di uno stato.

Si noti che la balcanizzazione, come definita in se stessa e come praticata nei paesi Balcanici e più in generale nell’Europa orientale, crea certamente disordini e guerre e facilita tutti i tipi di manipolazioni, ma non significa anarchia. Quest’ultima, in effetti, significa l’assenza di autorità, la mancanza di Stato. 

Ma nella balcanizzazione, poiché si crea, dove non c’era che un solo stato (di solito già non molto grande), un mosaico di mini-stati, vi è dunque proliferazione di stati, di autorità e addirittura concorrenza e conflitti violenti tra loro. Ogni pezzo del “puzzle” derivante dalla suddivisione si doterà il più possibile degli attributi dello Stato: bandiera, governo, moneta, amministrazione, esercito. Quindi ci sarebbe, quindi, una sovrabbondanza di stati, piuttosto che una mancanza. I problemi degli abitanti delle zone contestate deriveranno fondamentalmente dal fatto che due (o più!) stati vorranno esercitare la loro autorità su di loro e che ricorreranno alla forza per imporre le loro idee. Alcuni eventi che si verificano nel contesto africano detto di “balcanizzazione” presentano le caratteristiche descritte. Ma si tratta soprattutto di tentativi di secessione che, tra le cause di disordini in Africa, sono, in realtà, poco numerosi.

 

Gli “elefanti malati”

Sia in concomitanza con la balcanizzazione, sia poco prima, le potenze occidentali si sono avvalse di un’altra tecnica per suddividere gli imperi che non funzionassero bene (Turchia, Cina).  Un altro metodo è stato quello di amputare gli “elefanti malati”, non più delle entità territoriali per motivi etnici, ma piuttosto interi settori economici, con dei pretesti finanziari e tecnici. Questo merita una particolare attenzione a causa della estrema modernità di questo metodo. Leggendone la descrizione, si ha l’impressione di venire a conoscenza di fatti attuali, tranne che i protagonisti stranieri sono banchieri e paesi specifici e non, come ora, organismi internazionali dipendenti dalle Nazioni Unite e dalle istituzioni di Bretton-Woods. Lo schema è pressappoco il seguente. Un “elefante malato” si indebita con Paesi esteri, cioè con banche europee. Naturalmente, questo ricorso al credito è, in parte, usato per spese sontuose e inutili, ma è spesso usato anche per cose veramente utili, come l’educazione, la costruzione di scuole, lo sviluppo di infrastrutture moderne per il trasporto e il mantenimento di un esercito adatto alla guerra contemporanea.

Arriva il giorno in cui “l’elefante” non è più in grado di restituire i debiti al suo creditore. Nessun panico! Almeno per il banchiere, che è ovviamente in combutta con il governo del suo Paese e che ha già posto l’occhio su tale o talaltro settore dell’economia del “malato”. Un accordo “amichevole” è quindi stipulato tra l’«elefante» (che non ha scelta, avendo il coltello sulla gola), la banca e il governo di questo paese. L’accordo prevede che un determinato settore economico (per esempio: la riscossione delle imposte, lo sfruttamento di alcune miniere o di altri prodotti, la costruzione e il funzionamento delle ferrovie, la riscossione delle tasse doganali, …) sarà ormai assistito tecnicamente, in nome dell’«elefante malato», da funzionari del paese europeo. Tale operazione può essere ripetuta più volte, e in alcuni casi, può, infine, sfociare in una colonizzazione vera e propria, o in uno status di protettorato che è fondamentalmente una soluzione meno umiliante per il colonizzato, nella misura in cui mantiene, sulla carta, una sovranità … di cui il colonizzatore esercita, al suo posto, tutti gli attributi. Come si vede, la balcanizzazione e la tattica dell’«elefante malato» possono essere usate contemporaneamente. Dopo essersi privato, in favore delle banche estere, della maggior parte delle sue risorse, lo stato “malato” non è più in grado di difendersi dalle vicissitudini sia coloniali che divisioniste.

 

I tempi cambiano

Si è passati da un mondo in cui la sovranità nazionale era quasi un tabù, anche se c’erano quasi incessantemente grandi conferenze internazionali su tutte le questioni di interesse planetario, ad un mondo in cui le organizzazioni internazionali (mondiali o regionali) occupano un posto di primo piano.

Gli organismi internazionali, dalle unioni regionali come l’Unione Europea, fino alle Nazioni Unite, sono macchine burocratiche e tecnocratiche in cui i rapporti di forza sono “condizionati” a favore di determinate potenze e, soprattutto, degli interessi economici che stanno dietro i loro governi. Rispetto al passato, oggi non si tratta più di banche estere o di eserciti nazionali, ma del FMI e dei Cachi Blu.

Ciò che è interessante nella tattica degli “elefanti malati” è che, a differenza di quanto è stato detto per la “balcanizzazione” classica, non si evoca più la forza tirannica e repressiva di un impero multietnico che si impone a delle nazionalità oppresse, ma piuttosto la debolezza di uno stato obsoleto. Lo stato non esiste più che sulla carta, ma non è in grado di garantire ai cittadini i servizi che ci si aspetterebbe.

C’è un’ampia letteratura sull’inesistenza degli stati africani, il loro carattere artificiale, le suddivisioni contro natura fatte dalla Conferenza di Berlino, ecc. Ne esiste anche sui rimedi che si potrebbero apportare: l’unione di tutti gli Stati africani, sostenuta da pan-africanisti come Nkrumah e Cheikh Anta Diop, le varie proposte di tipo federale, la restaurazione degli stati pre-coloniali, l’integrazione delle “nazioni tribali” nello Stato moderno.

 

Il seguente testo non è certamente il primo, ma è uno dei più radicali, perché pretende affermare, molto semplicemente, che il Congo non esiste.

 

Il Congo? Non esiste! (There Is No Congo)[2]

L’unico modo per aiutare il Congo è quello di cessare di fingere che ci sia un Congo. La comunità internazionale deve riconoscere un dato di fatto, stupido e quasi brutale: il Congo non esiste.

Tutte le missioni di mantenimento della pace, gli inviati speciali e le iniziative diplomatiche che si basano sul mito del Congo – secondo cui questo vasto paese disporrebbe di un potere sovrano – sono  destinate al fallimento. È tempo di smettere di fingere il contrario.

Ciò che rende i problemi del Congo, quasi sempre irrisolvibili è che si tratta di un vasto territorio, scarsamente popolato ma ricco di risorse naturali. Un grande territorio quasi senza sbocco sul mare, nel cuore dell’Africa, il Congo ha 67 milioni di abitanti e oltre 200 gruppi etnici. Il paese confina con altri nove, alcuni dei quali sono tra i più deboli del continente. Secondo un detto locale, “il Congo è grande e se ne può mangiare a sazietà”. Infatti, è esattamente ciò che gli occupanti coloniali, i vicini e anche certi Congolesi hanno fatto per secoli: divorare la grande ricchezza minerale del Congo, senza troppo preoccuparsi della coesione del Paese. Il Congo non ha nulla di ciò che fa di uno Stato una nazione: le interconnessioni, un governo in grado di esercitare la sua autorità fin nel territorio più lontano dalla capitale, una cultura condivisa che promuova l’unità nazionale, o una lingua comune. Invece, il Congo è diventato una giustapposizione di popoli, di gruppi, di interessi e di saccheggiatori che, nella migliore delle ipotesi, coesistono.[3]

Il Congo di oggi è il prodotto della sua turbolenta storia: un secolo di brutale colonizzazione, 30 anni segnati dalla guerra fredda e dal malgoverno di Mobutu, l’alleato degli Stati Uniti, e 10 anni di guerra. L’attuale presidente ha ereditato una struttura fatiscente e una debole identità nazionale, fondata più sulla repressione e sul nepotismo che sulla capacità di governare e la fornitura dei servizi di base. Innumerevoli tentativi di secessione[4] hanno trasformato il Congo in un insieme di feudi indisciplinati con tenui legami con il centro. Kabila ha pochi strumenti a sua disposizione. Non c’è un esercito disciplinato, né forze di polizia: vivono sulle spalle del popolo piuttosto che servirlo. Come Mobutu prima di lui, per rimanere al potere, Kabila dipende dall’appoggio estero, dagli aiuti internazionali e dalle tasse sulla produzione mineraria.[5]

Economicamente, le parti periferiche del Congo sono meglio integrate con gli stati vicini che con il resto del paese. È difficile, per esempio, per qualcuno che è a Lubumbashi, capoluogo della ricca provincia mineraria del Katanga, nel sud-est, constatare che Kinshasa “governa”. Il viaggio da Lubumbashi a Johannesburg, Sud Africa, è di due giorni; il viaggio dal Katanga a Kinshasa – una distanza approssimativamente uguale – è raramente effettuato e, addirittura, poco preso in considerazione. Il Katanga ha più cose in comune con i suoi vicini anglofoni del sud che con Kinshasa[6] e non sorprende il fatto che il ministro dello Zambia l’abbia designato, un giorno, come “la 10ª provincia dello Zambia”.

I Paesi vicini della RDCongo hanno iniziato a non tenere in alcun conto la sua sovranità.[7] L’incapacità del governo congolese a controllare il proprio territorio ha portato a una delle guerre più lunghe e più violente del mondo. Circa 4 milioni di persone sono morte tra il 2000 e il 2004 – e questo è stato solo un episodio di una guerra ancora in corso. La guerra ha causato il saccheggio delle popolazioni civili da parte dei vari eserciti, la distruzione del sistema dei trasporti e dell’agricoltura del paese e il crollo di ciò che poteva esistere come infrastrutture sanitarie.[8]

Anche se gli Stati africani riconoscono le loro frontiere, almeno sulla carta, i Paesi limitrofi della RDCongo si comportano come se queste frontiere non esistessero.[9]

I Paesi vicini (Ruanda e Uganda, per esempio) non vogliono una RDCongo unita, perché molti di loro preferiscono trattare con una pletora di fazioni anarchiche su cui possono esercitare la loro influenza.

Data la vastità di questa tragedia umana, è il momento di chiedersi se delle province come quelle del Katanga e del Kivu (grandi come alcuni Stati africani) avranno un destino migliore rimanendo sottomesse alla finzione di uno “Stato congolese”.

L’idea stessa di uno Stato congolese è obsoleta, in quanto ha cessato di essere utile. Occorrerebbe immaginare un nuovo approccio alla ricerca di soluzioni per la RDCongo. L’Occidente dovrebbe iniziare a fare dello sviluppo e dell’ordine nel territorio congolese la priorità n ° 1, piuttosto che limitarsi alla promozione dello stato congolese. Tale semplice distinzione pone immediatamente il problema congolese sotto una nuova luce. Ciò significa, per esempio che i governi stranieri o le organizzazioni umanitarie dovrebbero avere come interlocutori quelle autorità che, di fatto, controllano il territorio, piuttosto che continuare ad affermare che Kinshasa controlla e dirige tutto il Paese. Un tale approccio farebbe probabilmente emergere un vasto e strano ventaglio di governatori, capi tribali, signori della guerra e altri, piuttosto che la solita panoplia di ministri.[10]

Invece di continuare a spendere miliardi per continuare ad incollare tutti i pezzi del Congo, la comunità internazionale dovrebbe prendere in seria considerazione, a livello regionale, le questioni politiche e della sicurezza.[11]

Per esempio, i disordini esistenti nella parte orientale della RDCongo hanno molto a che fare con l’insicurezza che permane in Ruanda e meno con ciò che il governo di Kinshasa può (o non può) fare. Una politica estera di sicurezza più realistica per l’Est del Congo potrebbe essere quella di dare la massima priorità alla sicurezza del Ruanda, dato che molte cose provengono ancora dal genocidio del 1994[12]. Assicurare questo è contribuire, in gran parte, a ridurre la violenza che tormenta il Kivu. Ciò inciterebbe anche i Ruandesi a considerare il Congo come un partner naturale per lo sviluppo e il commercio[13], piuttosto che un problema di sicurezza, di cui non può avere che un approccio unilaterale.

(Jeffrey Herbst & Greg Mills)

 

Nazionalità.

La balcanizzazione è marcata da nazionalismi incandescenti. È necessario, per giustificarla, poter avanzare una coscienza identitaria nazionale nascosta e repressa. Tuttavia, il posto del nazionalismo in un conflitto non è sempre evidente. A proposito del “Congo che non esiste”, gli autori adottano danno per supposto che qualsiasi conflitto africano è una “guerra di secessione”. Ma se si fa un’analisi un po’ più profonda, quasi non se ne trovano, perché spesso si tratta di “guerre civili”. L’obiettivo di una guerra civile è quello di cambiare, con la forza, il sistema politico di un intero paese, senza però cambiarne la geografia. Il fatto che, durante il conflitto, il paese è diviso in due dalla linea del fronte o che i “ribelli” devono necessariamente darsi una “capitale provvisoria” per installarvi la loro amministrazione, sono delle necessità pratiche che non corrispondono ad alcun desiderio di rendere questi fatti definitivi e permanenti.

Spesso, si identifica identità etnica = nazionalità. Il ragionamento è: “Non c’è un Congo e nemmeno dei Congolesi, perché ci sono dei Kongo, dei Luba, dei Tetela, dei Mongo, degli Azande, dei Bashilele, ecc …”.[14] Ma – e qui la cosa diventa davvero interessante! – le stesse persone interessate non sembrano credere in questa teoria! Quando si chiede a un Congolese come vede le cose, di solito si riceve questa risposta: “Io sono congolese dell’etnia X. Amo il Congo, ma vorrei che i membri della tribù X fossero meglio rappresentati in tutti gli organi dello Stato”. Questo lascia un sacco di problemi da risolvere, alcuni dei quali sono dei veri e propri rompi capi, ma è un classico atteggiamento di ogni minoranza (e tutti i gruppi etnici lo sono!) e non una rivendicazione separatista. Si tratta quindi di una situazione di negazione della nazionalità congolese in nome delle “nazionalità etniche”, manifestamente inventate “a tavolino” da “africanisti in pantofole”, che è respinta da una schiacciante maggioranza di Congolesi e che si vorrebbe, nonostante tutto, fosse accettata come una “descrizione oggettiva” della realtà locale.

 

Piani, Piani e ancora Piani

Nel testo di Jeffrey Herbst e Greg Mills, si legge: “Ciò motiverebbe anche i Ruandesi a considerare il Congo come un partner naturale per lo sviluppo e il commercio, piuttosto che come un problema di sicurezza, di cui non si può che averne un approccio unilaterale”. Vi si afferma che il commercio è, in definitiva, la chiave per risolvere tutti i problemi e che il “libero commercio” è la panacea che cura tutti i mali. La pseudo-evidenza dei “benefici del commercio” è usata per trasmettere l’idea che la RDC e il Ruanda sono “naturalmente” dei partner economici.

In questo contesto, il “piano di fine guerra” ideato da Herman J. Cohen aveva lo scopo di conferire una realtà giuridica alla nuova situazione geopolitica nella regione dei Grandi Laghi. Tenendo conto dell’integrazione economica, di fatto, del Kivu al Ruanda e dell’importanza per l’economia ruandese di potere continuare a beneficiare dello sfruttamento dell’Est del Congo, si vorrebbe istituire un “mercato comune”, che includerebbe Uganda, Ruanda, Burundi, Tanzania, Kenya e la stessa Repubblica Democratica del Congo. Con la libera circolazione delle persone e dei beni, «questo mercato comune garantirebbe alle imprese dei paesi membri – sottinteso quelle del Ruanda, per lo più – l’accesso alle risorse minerarie e forestali del Kivu contro versamento dei dazi doganali e tasse allo Stato congolese. Secondo Cohen, tale “mercato comune” permetterebbe alla Repubblica democratica del Congo di utilizzare i porti dell’Oceano Indiano che sono lo sbocco naturale dei prodotti del Congo orientale, piuttosto che  quelli dell’Oceano Atlantico, a più di 1600 km di distanza».[15]

Il discorso che Sarkozy ha pronunciato rifacendosi a tale schema non è stato diverso se non per un riferimento al carattere “bizzarro” delle risorse minerarie congolesi che si trovano in modo “strano” proprio nei pressi delle sue frontiere. In un caso come nell’altro, si tratta di monumenti di ipocrisia, dato che l’interesse dimostrato per gli Africani in questione – in questo caso, soprattutto il Ruanda – fa un po’ pensare all’interesse che gli specialisti della frode e del riciclaggio di denaro manifestano per la Svizzera o le Isole Cayman, facendo finta di concentrarsi sul clima salubre delle montagne o sulla dolcezza dell’aria mite dei Caraibi. Il Ruanda funge essenzialmente da “piattaforma” di tutti i traffici che interessano, ben lontano dall’Africa, gli operatori di tutte le principali piazze finanziarie internazionali.

Nel 1960, c’era già una certa competizione per l’egemonia sul Kivu fra le varie etnie congolesi (Nande, Shi, Havu …) e le popolazioni arrivate, più recentemente, nel territorio di Bwisha prima della colonizzazione o provenienti da Ruanda / Urundi, spostate nel periodo della colonia. Dal momento che le indipendenze del Ruanda e del Burundi imposero dei sistemi etnici, i potenziali migranti erano generalmente membri di gruppi etnici svantaggiati (Tutsi ruandesi, Hutu burundesi). Nei primi anni del regime di Mobutu, egli ha cercato di consolidare il suo controllo sull’insieme del Paese, cercando la complicità delle minoranze locali, fedeli perché dipendenti, per la loro sicurezza, dalla sua protezione. Senza alcun dubbio, in gran parte sotto l’influenza di Bisengimana, Mobuto scelse per questo ruolo, nel Kivu, i “zairwandesi”. Questi, come il resto della borghesia mobutista, poterono arricchirsi attraverso le varie espropriazioni, in particolare durante la “zairanizzazione”, a scapito delle popolazioni appartenenti ad altri gruppi etnici.

Ciò creò tra i “zairwandesi” e il resto della borghesia congolese dei legami di solidarietà di classe che sono sempre stati mantenuti, poiché questa borghesia, anche se ha subito delle eclissi, soprattutto politiche, non è mai stata cacciata dal potere, in particolare da quello che conta: il potere economico.

Il conflitto tra gli autoctoni e i zairwandesi era, inizialmente, relativi al possesso di terreni agricoli e di aziende commerciali. D’altra parte, esso concerneva una popolazione che non aveva che rapporti negativi con il suo paese d’origine.

Si scoprirà, in seguito, l’interesse economico per i giacimenti del coltan. Non si tratterà più, quindi, solo del suolo, ma anche del sottosuolo. Circa il coltan, si stima che il Congo possieda più della metà delle riserve mondiali di questo minerale, indispensabile per l’elettronica di punta. Pertanto, la Repubblica Democratica del Congo attira l’attenzione dei grandi operatori economici. Tra il 1990 e il 1994 si verificano gli eventi che portarono, in Ruanda, alla presa del potere da parte di Kagame. La conquista del potere da parte di Kagame rappresenta un cambiamento fondamentale, per molti punti di vista: l’ingresso spettacolare degli Stati Uniti in una sfera fino ad allora piuttosto dominata dalla Francia e la ridistribuzione delle forze in gioco nella regione dei Grandi Laghi. La roccaforte del “Potere Hutu”, il Ruanda, diventa una cittadella tutsi.

I “zairwandesi” erano, per lo più, persone che avevano lasciato il Ruanda per antipatia verso il regime che Kagame aveva appena rovesciato. Quindi c’è stata quasi inevitabilmente una tendenza spontanea alla simpatia fra loro. Tanto più che il nuovo regime ruandese ha ben presto manifestato le sue ambizioni espansionistiche, in particolare in direzione del Kivu. Da questo punto di vista, è ben conveniente, per Kagame, di avere un “cavallo di Troia” all’interno del Congo.

Pertanto, i borghesi predatori dell’Est del Congo non sono più protetti solo dalla solidarietà di classe tra i ricchi della borghesia congolese. Essi beneficiano anche di un sostegno esterno, da parte di una potenza regionale protetta, ella stessa, dall’egemonia mondiale americana. E gli Stati Uniti sono, per definizione, interessati alle risorse minerarie per le tecnologie avanzate.

I “piani”, come quelli di Cohen e Sarkozy, hanno quindi come obiettivo quello di conferire una realtà giuridica alla nuova situazione geopolitica della regione dei Grandi Laghi, che terrebbe conto dell’importanza, per l’economia ruandese, di poter continuare a beneficiare dello sfruttamento dell’Est del Congo, integrando economicamente il Kivu. In definitiva, questo potrebbe condurre anche a creare un “mercato comune”, tra Ruanda, Uganda, Ruanda, Burundi, Tanzania, Kenya e la stessa Repubblica Democratica del Congo.

 

La caccia all’«éléfalkan»

La “balcanizzazione” consiste nel sostituire un grande o medio stato con una serie di altri piccoli o minuscoli stati. Qualunque siano. Ma sono sempre stati. Hanno sempre la responsabilità di proteggere i propri cittadini, mantenere l’ordine, ecc …

A proposito degli “elefanti malati”, la conclusione logica del processo è l’assorbimento della vittima in un impero coloniale, anche se solo sotto forma di un protettorato. La colonizzazione, anch’essa, ha un elevato costo sociale (le spese per le infrastrutture, per i salari, …), ciò che riduce i guadagni. Si tratta allora di trovare la formula dell’éléfalkan, quella che unisce i vantaggi della balcanizzazione e quelli dell’elefante malato e, soprattutto, evitarne i rischi. Una formula, dunque, in cui non ci sarebbe alcuna spesa di sovranità, come nella balcanizzazione, né l’obbligo di perdere dei soldi per “progetti umanitari”, come nelle colonie.

C’è un paese, la Repubblica Democratica del Congo, che dispone di risorse minerarie, non ancora sfruttate industrialmente. Questo Paese non dispone di mezzi amministrativi e militari per esercitare la sua sovranità nazionale. È gestito, nell’insieme del suo territorio, da una borghesia attenta al solo suo profitto immediato. Nell’Est, questa borghesia rapace ha legami SIMULTANEI sia con il resto della borghesia congolese, per solidarietà di classe, sia con la classe dirigente della dittatura ruandese, a causa di una parentela etnica. Non bisogna aspettarsi, dalla borghesia “veramente congolese” che si vanta di essere tale, che si dissoci dai “zaïrwandesi”. Perché prendere le distanze da loro equivarrebbe a mettere in discussione il meccanismo di spoliazione mobutista su cui si fondano TUTTE le risorse del paese, anche molto lontano dalla frontiera orientale.[16]

I legami di solidarietà etnica con il Ruanda permettono ai saccheggiatori di avere una frontiera orientale molto permeabile. Grazie ad essa, il Ruanda può servire come piattaforma del traffico commerciale e come interfaccia tra gli “intermediari” africani e i veri sfruttatori reali “all’ingrosso”, cioè un certo numero di operatori anglosassoni, ma anche africani, arabi o asiatici e, addirittura, anche un numero di cittadini dell’UE. Infine, dettaglio significativo, perché non ci sono piccoli profitti, il fatto che lo sfruttamento dei minerali è artigianale permette di non interessarsi per nulla del salario o della sicurezza dei minatori. Al contrario la “insicurezza”, permette di ricorrere alla minaccia e al lavoro forzato!

Questa situazione prevede che:

1. Sebbene ci sia un sito web degli “indipendentisti del Kivu”, non c’è da aspettarsi una secessione “del tipo Katanga ’60”. Il fatto che il Kivu sia ancora parte della RDCongo permette di mantenervi le FARDCche partecipano all’insicurezza, necessaria per il reclutamento di schiavi.

2. È poco probabile che Kagame abbia un grande desiderio di annettere, tutto o in parte, il Kivu, o di creare, davanti alla sua porta di casa, un Kivu indipendente. Ancora una volta, ciò richiederebbe delle spese di sovranità, un minimo di realizzazioni sociali che costerebbero, quando il ruolo di piattaforma per il traffico commerciale dei minerali procura guadagni e non costa nulla.[17]

3. I due Kivu, densamente popolati rispetto alla media nazionale congolese, hanno tuttavia una densità demografica molto inferiore a quella del Ruanda. Questo crea, ipso facto, una specie di “vuoto” relativo che attira inevitabilmente la gente delle zone più affollate. Forse alcuni ritengono auspicabile che l’Est del Congo svolga questo ruolo di scarico. Può essere anche duplice: permettere di “rallentare la pressione”, riducendo la pressione demografica in generale, ma anche usando in Congo dei militari diventati troppo irrequieti. Tutto questo non richiede necessariamente una secessione o un’annessione. È sufficiente che, mediante accordi (ad esempio la CEPGL), si garantisca agli abitanti di un certo numero di paesi la libertà di spostarsi, di lavorare, di stabilirsi in una determinata zona, di investire capitali. Date le sue grandi dimensioni, la RDCongo sarà automaticamente la vittima principale di tale farsa.

4. Essendo l’insicurezza parte del sistema produttivo, basato in parte sul terrore, potrebbe essere probabile che questi accordi comprendano anche delle clausole sulla libera circolazione militare.

 

Come si può constatare, il numero e l’importanza degli aspetti del tipo «elefante malato» sono molto più sorprendenti di quelli relativi alla “balcanizzazione” stessa. È particolarmente chiaro che i predatori hanno interesse a che la RDCongo rimanga uno stato debole. Questo è vero per la RDCongo nel suo complesso, ma lo è anche per i piccoli stati che potrebbero derivare dalla sua suddivisione. La debolezza degli stati è redditizia, sia in generale come nel dettaglio. Parlare di “balcanizzazione” è, in definitiva, un’operazione che distrae dai veri problemi. Con i suoi riferimenti storici, tale parola richiama l’attenzione sulle secessioni territoriali e su questioni di nazionalità, quando i veri pericoli provengono da tutti coloro che, Congolesi o stranieri, sono al servizio non delle persone, ma del capitale.



[2] Questa è la traduzione, messa in linea il 03/23/09 su CongoForum, del testo di Jeffrey Herbst & Greg Mills, con note di G. De Boeck. Jeffrey Herbst è decano della Miami University, Ohio. Greg Mills dirige la Brenthurst Foundation di Johannesburg. I passaggi in grassetto sono sottolineati nel testo originale.

[3] Trattare gli stati, le frontiere e altri limiti e suddivisioni arbitrarie come assurdità è affermare l’ovvio e aprire una porta già aperta. Ma questa affermazione è vera per TUTTI gli stati, non solo per la RDCongo. La pluralità etnica e culturale, la complessità linguistica, all’interno di uno stesso Stato, sono caratteristiche quasi universali in Africa. Tali argomenti potrebbero valere anche per altri Paesi. Il Congo non ha solo una lingua, ma quattro lingue nazionali, ma almeno sono africane, mentre altri Paesi non possono comunicare con l’insieme della loro popolazione che nella lingua del colonizzatore, raramente compresa da tutti. Che le estremità del paese siano lontane da Kinshasa, è un fatto, ma ciò dimostra solo che il Congo, come il Brasile, la Tanzania, la Costa d’Avorio e la Nigeria, già da molto tempo avrebbe dovuto spostare la sua capitale in un punto più centrale!

[4] Nella storia del Congo, ci sono stati due tentativi di secessione, negli anni ’60, quella del Katanga, e quella, che le era subordinata, del Sud Kasai. In altri periodi di violenza, il Congo è stato diviso, ma diviso tra fazioni rivali che, tutte, lottavano per arrivare al potere centrale per governare tutto il Congo. E ‘stato il caso dei governi rivali a Leopoldville e a Stanleyville negli anni ’60, e degli episodi più recenti delle “ribellioni” del MLC e del RCD.

[5] Infatti, il Congo ha fatto il grande errore di continuare un’economia coloniale basata sulle miniere, piuttosto che sfruttare le sue vere ricchezze, che sono agricole e idrologiche. Il loro sviluppo richiede, tuttavia, di mantenere l’unità del paese!

[6] Il Katanga congolese e la “cintura di rame” zambiana si trovano su una stessa zona di giacimenti ubicati presso la frontiera comune. È stato il caso, nel passato, di un giacimento di ferro su cui si trovavano la siderurgia francese in Lorena, belga a Athus, lussemburghese e tedesca. È questo un argomento per la scomparsa di questi quattro paesi?

[7] Ecco il punto cruciale della questione. Ogni vulnerabilità può portare alla tentazione dell’aggressione e anche alla sua attuazione. È legittimo mettere in guardia le potenziali vittime dai rischi. Tuttavia, non occorre andare oltre e considerare la vittima ancora più colpevole, per la sua fragilità evidente, che l’aggressore. Ora, questo è quello che si è fatto, accusando praticamente il Congo di essere una vittima troppo allettante!

[8] Occorre riconoscere che ciò che si dice sulle varie fazioni congolesi è abbastanza vero. Ma occorre anche notare che se si è potuto distruggere è perché qualcosa c’era già! Non si possono trattare nello stesso modo, per una stessa carenza, il governo congolese e gli stati aggressori.

[9] Eccoci di nuovo! Si riconosce che è dai Paesi vicini che provengono i problemi, ma ci si attacca ancora al Congo e alla sua esistenza entro i suoi confini riconosciuti. L’aggressore ha il diritto di aggredire e lo stupratore conserva il diritto allo stupro. La colpevole è la ragazza che ha la mini gonna troppo corta!

[10] Lavorare direttamente con partner locali, provinciali o diocesani fa già parte, da lungo tempo, della routine delle ONG, almeno europee. Questa pratica potrebbe estendersi anche tra le importanti organizzazioni internazionali o ufficiali, non per “mettere da parte il Congo che non esiste”, ma per evitare inutili e costose deviazioni burocratiche a Kinshasa. E sarebbe assolutamente possibile tenere maggiormente in conto i capi tradizionali. Invece, l’idea di farlo con la volontà di prendere in giro Kinshasa e “il Congo inesistente” per arrivare a collaborare con i “signori della guerra” che, di solito, sono degli intermediari delle imprese ruandesi e ugandesi di predazione, è un’idea folle, non tanto in nome di un principio di rispetto per lo stato congolese, ma perché l’idea stessa di una ricompensa all’abuso della forza e alla criminalità minaccia il minimo di moralità che deve essere mantenuto ovunque, anche in politica.

[11] Questa idea è eccellente. Basta semplicemente applicarla nel senso giusto e non, come fanno gli autori, al contrario!

[12] Un’idea più realistica della situazione regionale sarebbe quella di considerarla come avvelenata dalle ambizioni espansionistiche di un Ruanda che non ha alcun problema di sicurezza! C’è un problema INTERNO ruandese che può essere riassunto così: il FPR di Kagame si è rifiutato di continuare il processo di dialogo inter-ruandese, che doveva condurre ad una riforma dello Stato. Ha preferito far precipitare il paese in una guerra civile durante la quale hanno avuto luogo i massacri del 1994, che hanno causato 800.000 vittime, ma non sono stati un genocidio. È Kagame che ha utilizzato il preteso genocidio per poi giustificare la sua usurpazione del potere e la sua dittatura e per fare accettare le sue elezioni truccate. È necessario che il Ruanda rilanci il suo dialogo interno, anche con le FDLR, e risolva, egli stesso, i suoi problemi interni. Allora, cesserà di destabilizzare la regione.

[13] Gli autori dimenticano che il Ruanda ha un grave problema di sovraffollamento, ciò che lo porta ad essere non semplicemente un egemone, ma un annessionista. Come la maggior parte della sua popolazione rurale, il Ruanda ha bisogno di TERRE. Immaginare che si risolverà questo problema con del commercio, degli investimenti e del lavoro pendolare nei pressi della frontiera è un’illusione molto diffusa presso gli anglo-sassoni, ma non ha alcun fondamento.

[14] La questione, naturalmente, è la seguente: perché questa affermazione sarebbe vera, quando raramente si sente dire: “La Francia non esiste, perché ci sono dei Bretoni, degli Occitani, degli Alsaziani, dei Rouerguesi e dei Ch’timi ….”. La sola risposta che sembra essere chiara è che la questione non si pone, quando nelle diverse “nazionalità” – nella RDC: nei diversi gruppi etnici – la volontà di rimanere uniti supera il particolarismo, anche se questo è dinamico e vivace. Il problema non dovrebbe dunque porsi per il Congo o, più precisamente, se si pone, è perché è importato dal di fuori.

[15] Piano americano di “fine guerra”. Herman Cohen intrappola Obama e la Repubblica Democratica del Congo, Le Potentiel – Kinshasa, 29/12/2008

[16] Questo significa, in pratica, che è sbagliato insistere sui cromosomi tutsi o sui test del DNA. I filo-ruandesi possono essere identificati dalle dimensioni del loro portafoglio e della loro auto.

[17] È talmente preferibile dedicarsi al commercio piuttosto che alla produzione, che il Ruanda non ha nemmeno messo in valore i propri giacimenti di quegli stessi minerali.