Congo Attualità n. 116

Questo numero è dedicato completamente al “Rapporto del Progetto Mapping concernente le violazioni più gravi dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario commesse tra marzo 1993 e giugno 2003 sul territorio della Repubblica democratica del Congo“, redatto dall’Alto-commissariato per i diritti dell’uomo dell’ONU e pubblicato nella sua versione definitiva il 1° ottobre 2010.
Questo documento si trova in: http://www.ohchr.org/EN/Countries/AfricaRegion/Pages/RDCProjetMapping.aspx

SOMMARIO:

EDITORIALE
1. LA DIFFUSIONE ATTRAVERSO I MEDIA DI UNA UNA VERSIONE NON DEFINITIVA DEL RAPPORTO
2. LA PUBBLICAZIONE DELLA VERSIONE FINALE DEL RAPPORTO
3. UN PASSO AVANTI
4. LE CONSEGUENZE
5. VERSO LA FINE DELLA MENZOGNA E UN INIZIO DI VERITÀ
6. VERSO LA FINE DELL’IMPUNITÀ E UN INIZIO DI GIUSTIZIA
7. LE LINGUE SI SCIOLGONO

 

EDITORIALE. QUESTA VOLTA, GRAZIE, ONU!

Ciò che è accaduto il 1° ottobre 2010, preceduto dalla diffusione della versione non definitiva il 26 agosto, non ha rivelato ancora tutte le sue conseguenze sulla regione dei Grandi Laghi e sulla politica internazionale. Il documento è stato un atto di coraggio, un omaggio dovuto a tanti morti innocenti, schiacciati da una macchina infernale di guerra che alcuni hanno messo in moto e guidato senza esserne le vittime.

Ogni persona, ogni gruppo innamorato della preoccupazione per la verità, la giustizia e la pace nei paesi della regione dei Grandi Laghi africani, dovrebbe farne lettura e tirarne le conseguenze. In questo numero, proviamo a presentarlo e dimostrarne il valore e le poste in gioco.

Ci congratuliamo con l’équipe che ha lavorato, sul campo o da lontano, per ricostruire almeno i grandi assi della storia di quel terribile decennio 1993-2003 in Repubblica Democratica del Congo. Fare memoria di coloro che sono stati schiacciati dalla guerra, anche citando semplicemente il loro numero, significa impedire che muoiano due volte, che la loro morte sia banalizzata, significa volere che da questa tragedia possano emergere degli insegnamenti e delle piste di impegno per l’avvenire.

IL DOCUMENTO PUÒ ESSERE LETTO SOTTO DIVERSI ANGOLI, TUTTI IMPORTANTI.

L’angolo umanitario: un popolo è stato annientato e distrutto in guerre che hanno avuto i civili, congolesi o rifugiati, come principale bersaglio, perché erano disarmati. Lo scenario non è peggiore di quello di altre guerre: è il viso un po’ riavvicinato del mostro della guerra, dove la pietà muore.

L’angolo economico: il rapporto conferma ancora una volta che queste guerre avevano come scopo primario lo sfruttamento delle risorse della RDCongo (minerarie, territoriali, agricole, le infrastrutture e i beni degli abitanti).

L’angolo mediatico: queste guerre sono passate quasi inosservate o mal percepite, come conflitti puramente etnici, mentre non si cessa di fare memoria delle precedenti shoah. Perché non riusciamo a percepire la portata degli avvenimenti mentre accadono, mentre è possibile sottrarre almeno un giorno all’orrore?

L’angolo sociologico e antropologico: cos’è che fa esplodere una tale violenza in popolazioni che vivevano in pace, nonostante le normali tensioni che gli anziani del villaggio risolvevano attraverso il dialogo? Dal momento in cui ciò che è accaduto non è specifico all’Africa, ma ad ogni contesto di guerra, chi è quell’essere umano che può fare della sofferenza dell’altro la sua gioia? Tuttavia, va notato anche che, in pieno temporale, c’è stato anche chi è stato capace di porre gesti di fraternità, fino ad esporre la sua propria vita, accogliendo uno straniero, difendendo un oppresso. Ci sarebbe anche questa storia positiva da ricostruire, come il rapporto stesso lascia, a tratti, intravedere.

L’angolo religioso: tutte le religioni possono interrogarsi a partire da questo documento, rispetto al passato e rispetto alla loro azione attuale. Che cosa significa servire veramente la persona, un popolo?

L’angolo politico: Da dove è venuto il temporale? Quali erano i progetti politici nascosti che l’hanno scatenato? Quali sono stati i vuoti, le letargie, le complicità che hanno permesso che dieci anni siano passati così e che, fino ad oggi, per molta gente dell’est della RDCongo la guerra non sia ancora finita? Leggere questo rapporto significa appassionarsi maggiormente alla ricerca delle cause, alla lotta contro le radici nascoste di questi avvenimenti.

E’ giunto il tempo di condividere con l’Africa non i resti della nostra tavola, ma la sete di verità, di giustizia e di dignità per una pace vera.

1. LA DIFFUSIONE ATTRAVERSO I MEDIA DI UNA VERSIONE NON DEFINITIVA DEL RAPPORTO

 Messa in causa di vari eserciti.

Il 26 agosto, il giornale francese Le Monde ha pubblicato dei brani d’una versione non definitiva del “Rapporto del Progetto Mapping relativo alle violazioni più gravi dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario commesse tra marzo 1993 e giugno 2003 sul territorio della Repubblica democratica del Congo”, redatto dall’Alto-commissariato per i diritti dell’uomo dell’ONU.

Dietro il titolo, si nasconde un decennio di violenze, omicidi, stupri, saccheggi ai quali presero parte vari paesi della regione.

La Commissione ha recensito 617 casi di violenze, classificati per province, in ordine cronologico e per tipi di crimini. Frutto di un anno di lavoro, il repertorio, di un’esaustività e di una precisione molto rare, va dalla persecuzione della popolazione del Kasai nel Katanga (1993-1994) al conflitto in Ituri (2003), passando per i massacri di rifugiati hutu ruandesi e di civili hutu congolesi (1996-1997), all’indomani del genocidio ruandese.

Ben otto Stati africani sono messi in causa da questo rapporto circostanziato e rigoroso che dettaglia i massacri, stupri e saccheggi commessi dai loro militari e milizie satelliti. Tutto sono implicati: il Ruanda, per il suo appoggio all’Alleanza delle Forze Democratiche di Liberazione (AFDL) di Laurent-Désiré Kabila (padre dell’attuale presidente congolese) e al Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD); l’Uganda, con la sua strumentalizzazione del Movimento di Liberazione del Congo (MLC) di Jean-Pierre Bemba; il Burundi, ma anche l’Angola, lo Zimbabwe, il Ciad.

Il rapporto, di 600 pagine, descrive quattro periodi: gli ultimi anni di potere del maresciallo-presidente Mobutu, da marzo 1993 al giugno 1996; la prima guerra condotta dal luglio 1996 al luglio 1998 da Laurent-Désiré Kabila e i suoi alleati ruandesi, ugandesi e burundesi; la seconda guerra, da agosto 1998 fino all’assassinio del presidente Laurent Désiré Kabila nel gennaio 2001, corrispondente all’intervento di almeno otto eserciti stranieri e 21 gruppi armati irregolari e, infine, la progressiva attuazione del cessate il fuoco fino al giugno 2003.

RDCongo, vittima collaterale degli avvenimenti ruandesi.

Il rapporto si china sul peggior decennio, tra il 1993 e il 2003, quando la RDCongo diventa una vittima collaterale del genocidio ruandese. Nel 1994, dopo il genocidio ruandese di aprile-luglio, l’esercito patriottico ruandese (APR), a maggioranza tutsi e condotto da Paul Kagamé, riprende il potere a Kigali. Temendo delle rappresaglie da parte dei Tutsi, circa due milioni di Hutu fuggono dal Ruanda e si rifugiano dall’altro lato della frontiera, nello Zaire, futuro RDCongo, dove si ammucchiano nei vasti campi di rifugiati.

Nel 1996, con il pretesto di andare in soccorso dei “Banyamulenge vittime di discriminazione” nel Zaire di Mobutu, il Ruanda di Paul Kagame – assistito dagli eserciti burundese e ugandese – invade le province zaïresi del Kivu. In realtà, era per effettuare il ritorno forzato dei rifugiati hutu o, piuttosto, per ucciderli semplicemente, come affermato in vari casi documentati dal rapporto e, infine, per lottare contro i “genocidari Interahamwe”, presentati all’opinione internazionale come una minaccia per la sicurezza del Ruanda e dei Tutsi congolesi.

Come affermato nel rapporto, in certi campi profughi, un gruppo di estremisti stava organizzandosi in vista di una riconquista del paese. E’ così che nell’ottobre 1996, i campi dei rifugiati sono il bersaglio di raid condotti dall’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo (AFDL) di Laurent-Désiré Kabila, futuro presidente della RDCongo, una ribellione, ricorda il rapporto del HCDH, “le cui truppe, l’armamento e la logistica erano forniti dal Ruanda”.

La marcia dell’AFDL/APR verso Kinshasa è stata contrassegnata da moltissimi massacri indiscriminati: Uvira, Bukavu, Goma, Tingi Tingi, Kisangani, Mbandaka, Ingende, Bokatola, Wendji Secli sono dei nomi di località e città dove le popolazioni locali sono state testimoni dei massacri di rifugiati hutu ruandesi e di civili congolesi. Secondo i testimoni, durante l’avanzata delle truppe dell’AFDL/APR, i cadaveri sono stati sepolti in fosse comuni, o gettati nelle latrine, nei fiumi o inceneriti.

Il documento mette chiaramente in causa il Ruanda e, particolarmente, il suo presidente Paul Kagamé, per le estorsioni condotte nell’est della RDCongo. Il rapporto fornisce numerosi esempi di “crimini contro l’umanità” e “crimini di guerra”, addirittura possibili “crimini di genocidio”. Così, nel dicembre 1996, quando degli “elementi dell’AFDL/APR hanno ucciso parecchie centinaia di rifugiati” nel villaggio di Mutiko. O quando gli stessi hanno “ucciso circa 310 civili, fra cui un gran numero di donne e di bambini” nel villaggio di Kinigi.

Genocidio contro gli Hutu in RDCongo?

Il rapporto del HCDH sgrana i massacri e le loro circostanze. “L’uso estensivo di armi bianche (principalmente martelli e zappe) e i massacri sistematici di superstiti dopo la presa dei campi dimostrano che i numerosi decessi non sono imputabili alle conseguenze della guerra. Tra le vittime, c’era una maggioranza di bambini, di donne, di persone anziane e di malati che non rappresentavano alcun pericolo per i belligeranti”, afferma il rapporto.

Con il pretesto di distribuir loro un aiuto alimentare o di rimpatriarli in Ruanda, i soldati dell’AFDL/APR raggruppavano i profughi hutu e, dopo averli riuniti tutti insieme, “cominciavano a sparare su di loro in modo indiscriminato e con armi pesanti” o li colpivano “a forza di martelli o di zappe”.

Un esempio: “Il 26 ottobre 1996, degli elementi dell’AFDL/APR hanno ucciso varie centinaia di profughi in fuga lungo le strade che collegano Nyantende a Walungu-centro e Nyantende a Bukavu. Le vittime… sono state uccise con armi da fuoco, con colpi di baionetta o per l’esplosione di granate. I militari hanno incendiato la maggior parte dei siti dove si trovavano i rifugiati. La maggioranza delle vittime erano donne, bambini e anziani. Secondo le testimonianze raccolte, i militari hanno ucciso tra 200 e 600 persone. I corpi delle vittime sono stati sepolti sul posto dalla popolazione locale”.

Altro esempio: “Circa il 22 novembre 1996, degli elementi dell’AFDL/APR hanno ucciso parecchie centinaia di rifugiati nel campo di Chimanga, situato a 71 chilometri ad ovest di Bukavu. Al loro arrivo nel campo, i militari hanno chiesto ai rifugiati di radunarsi per assistere ad una riunione. I militari hanno promesso loro di uccidere una mucca e di dar loro la carne, affinché potessero riprendere le forze e rientrare in Ruanda in buone condizioni. Hanno poi cominciato a registrare i rifugiati, raggruppandoli per prefettura di origine. Ad un certo momento tuttavia, si è sentito un colpo di fischietto e i militari posizionati intorno al campo hanno aperto il fuoco sui rifugiati. Secondo le diverse fonti, sono stati così uccisi tra 500 e 800 rifugiati”.

Il rapporto descrive “la natura sistematica, metodologica e premeditata degli attacchi contro gli Hutu (che) si sono svolti in ogni località in cui dei profughi sono stati rintracciati dall’AFDL/APR e questo su una superficie molto vasta del territorio”.

L’Alto-commissariato per i diritti dell’uomo dell’ONU stima, per conseguenza, che in RDCongo, nel 1996 – ’98, dei militari ruandesi, o sostenuti dal Ruanda, hanno potuto commettere dei fatti di “genocidio”. Si può dunque parlare di genocidio? Il HCDH non si pronuncia sulla questione, ma rievoca la possibilità di una tale qualifica. Gli inquirenti dell’ONU stimano, difatti, che “gli attacchi sistematici e generalizzati contro gli Hutu rifugiatisi in RDCongo, rivelano vari elementi a carico che, se comprovati davanti ad un tribunale competente, potrebbero essere qualificati di crimini di genocidio”.

 

Reazioni a Kigali.

Circa la qualificazione attribuita ai massacri di Hutu da parte dell’APR, e cioè: crimini di guerra e genocidio, il potere di Kigali, che ha la particolarità di aver fatto del genocidio dei Tutsi del 1994 un ben noto fondo di commercio per attirarsi la simpatia della Comunità Internazionale e per emarginare gli oppositori al suo regime, si è ritrovato in una situazione di grande imbarazzo.

La possibile qualificazione dei massacri di Hutu in RDCongo come crimini di genocidio irritano l’uomo forte di Kigali, Paul Kagame, che continua finora a qualificare di “negazionista” ogni presa di posizione di questo genere. Ha tentato addirittura di impedire la pubblicazione di questo rapporto da parte dell’Onu, minacciando di ritirare le sue truppe (3550 soldati) dalle operazioni dell’ONU, particolarmente dal Darfour.

2. LA PUBBLICAZIONE DELLA VERSIONE FINALE DEL RAPPORTO

Il 1° ottobre, l’organizzazione delle Nazioni unite ha pubblicato ufficialmente l’atteso rapporto sui massacri commessi nell’ex-Zaire dal 1993 al 2003.

Nella versione finale del documento, gli inquirenti constatano che la qualifica di “genocidio” ha “provocato molti commenti e che tale questione rimane ancora senza risposta”. Ma gli inquirenti delle Nazioni Unite riaffermano ancora oggi che i soldati di Laurent Désiré Kabila e “i militari ruandesi non avrebbero fatto alcun sforzo per distinguere gli Hutu membri delle Forze Armate Ruandesi e i miliziani Interhamwe dagli altri civili hutu”.

Il rapporto finale suggerisce che, “in quell’epoca, gli attacchi erano diretti contro i membri del gruppo etnico hutu in quanto tale”. Gli inquirenti ricordano che, secondo l’articolo 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 e l’articolo 6 dello Statuto di Roma, gli Statuti della Corte penale internazionale, in questi casi si può ritenere l’intenzione di distruggere tutto un gruppo etnico o solamente una parte di esso.

In questo documento esplosivo, le Nazioni Unite stimano tuttavia che “la questione del genocidio contro gli Hutu in Congo non può essere risolta che per una decisione giudiziaria sulla base di prove inconfutabili e senza possibilità di appello”. Gli autori del rapporto auspicano quindi l’istituzione di un tribunale competente che abbia la missione di rispondere una buona volta per tutte alla questione di sapere se anche questi casi possono essere qualificati come crimini di genocidio.

La prudenza è la parola chiave di questo documento, come dimostrato dal ricorso ad alcuni termini come “apparentemente” o “suggerire”. Gli esempi non mancano: “L’utilizzazione intensiva di armi bianche, soprattutto martelli e il carattere apparentemente sistematico dei massacri di superstiti dopo che i campi fossero stati smantellati suggeriscono che i numerosi decessi non possono essere attribuiti agli effetti della guerra o considerati come danni collaterali”, afferma il rapporto, aggiungendo che “la maggior parte delle vittime erano dei bambini, donne, anziani e malati”.

Il rapporto stabilisce anche un legame tra i crimini commessi e lo sfruttamento, da parte di operatori locali e stranieri, delle risorse naturali del Congo, come il rame, il cobalto, l’oro, o il coltan, un minerale molto raro che contiene del tantalio metallico, un prodotto utilizzato nella fabbricazione di telefonini, computer, videogiochi e nell’industria di punta. Le miniere a cielo aperto di coltan sono ancora oggi al centro di una vera guerra nel Kivu, regione di frontiera tra Congo e Ruanda.

3. UN PASSO AVANTI

È strano che l’annuncio di questi massacri a grande scala e a ripetizione susciti, in modo abbastanza ipocrita, tanto interesse. Infatti, da anni moltissime testimonianze provenienti da diverse fonti continuano a riportare dettagliatamente il lungo calvario dei rifugiati hutu ruandesi e delle popolazioni congolesi delle province orientali del Congo.

La stessa Onu l’ha fatto. Fin dal settembre 1994, un rapporto dell’Alto-Commissariato per i rifugiati, il “Rapporto Gersony” (dal nome del suo coordinatore) già accusava l’esercito patriottico ruandese (APR) di massacri “mirati” commessi in Ruanda contro la popolazione hutu, prima, durante e dopo il genocidio di aprile-giugno 1994. In quell’epoca, tale rapporto era stato giudicato talmente scomodo che fu puramente e semplicemente ritirato dalla circolazione e considerato come se non fosse mai esistito. La messa al bando di questo rapporto, un atto politicamente molto scorretto, è solamente un tentativo, tra molti altri, di camuffare, di fronte all’opinione pubblica internazionale, la verità sulla vera strategia adottata, nella regione dei Grandi Laghi, dall’Uganda di Museveni e dal Ruanda di Kagame, con la benedizione e l’incoraggiamento da parte dei loro sponsor anglosassoni.

I massacri commessi in RDCongo sui rifugiati hutu rwandesi furono già denunciati a suo tempo. Una missione dell’ONU, inviata nel 1997 dall’ex Segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, fu incaricata di indagare su delle “affermazioni di crimini perpetrati dalle forze di Laurent-Désiré Kabila (padre dell’attuale presidente congolese) all’epoca della loro offensiva contro l’esercito del maresciallo Mobutu Sese Seko, dall’ottobre 1996 al maggio 1997”.

Ma nell’aprile 1998, Annan decise di ritirare la missione dalla RDCongo a causa dei “ripetuti ostacoli posti dal governo di Laurent Désire Kabila” al lavoro dei tre esperti che, tuttavia, avevano avuto il tempo di redigere un rapporto, il “Rapporto Garreton”, secondo cui gli attacchi commessi mostravano bene che “l’intenzione era quella di eliminare gli Hutu ruandesi rimasti in Zaire” e che, “se ciò fosse confermato, si tratterebbe di un atto di genocidio”.

Tuttavia, il rapporto “era stato sepolto” dal Consiglio di Sicurezza, stima Brody, ex inquirente dell’ONU sui massacri in RDCongo e che attualmente lavora per l’organizzazione non governativa Human Rights Watch. “I membri della missione stimano che certi di questi massacri potrebbero costituire un genocidio e chiedono di indagare ulteriormente su questi crimini e sulla loro motivazione”, aveva allora dichiarato Kofi Annan davanti al Consiglio di Sicurezza.

4. LE CONSEGUENZE

Il rapporto del HCDH potrebbe cambiare la percezione globale della Comunità Internazionale sulla questione ruandese. La storia scritta finora e che ritiene solo il genocidio commesso contro i Tutsi nel 1994, potrebbe essere soggetta ad una riscrittura. Secondo certi analisti, il rapporto sul massacro degli Hutu da parte dell’APR è un’esigenza di memoria, di verità, di equità e di responsabilità storica da parte dell’ONU.

Secondo il sociologo francese André Guichaoua, specialista della regione dei Grandi Laghi, il rapporto del HCDH cambia un rapporto di forze e una scrittura della storia. Le “vittime” del genocidio del 1994 sono, in questo rapporto, ritenute come presunte responsabili di un secondo massacro. Per molto tempo il regime di Kigali è stato intoccabile a causa del genocidio ruandese del 1994. Adesso il rapporto del HCDH può mettere fine a sedici anni di impunità riservata al campo dei vincitori.

Gli Hutu, quelli dell’interno come quelli della diaspora, avevano già tentato, senza successo, di fare accettare l’evidenza di un “genocidio Hutu”, come scrive l’ex ambasciatore ruandese a Parigi, Jean-Marie Vianney Ndagijimana, alle pagine 159 e 160 del suo libro “Paul Kagame ha sacrificato i Tutsi”: “(…), riaffermiamo che un gruppo di Hutu ha commesso un genocidio distruggendo intenzionalmente la vita di centinaia di migliaia di Ruandesi di etnia tutsi e che un gruppo di Tutsi ha commesso un genocidio distruggendo intenzionalmente la vita di centinaia di migliaia di Ruandesi di etnia hutu”. Ndagijimana è di madre Tutsi e di padre Hutu.

5. VERSO LA FINE DELLA MENZOGNA E UN INIZIO DI VERITÀ

La verità sul conflitto ruandese deve venire alla luce, per permettere ai Ruandesi di impegnarsi, assumendo la loro propria storia, nella via della riconciliazione, della promozione della cultura della pace e di uno sviluppo duraturo e uguale per tutti. È la verità che potrà dimostrare che anche in Ruanda non c’è un’etnia più crudele di un’altra, né un’etnia più estremista di un’altra, ma piuttosto degli individui, se non dei piccoli gruppi, mal intenzionati che sfruttano le differenze etniche, per saziare la loro sete di egemonia. È la verità che, in questo paese già devastato da ricorrenti conflitti interni, disattiverà una guerra civile che cova sotto la cenere anche attualmente .

Gli avvenimenti ruandesi del 1994 hanno distrutto la società ruandese, soprattutto perché si è favorito una visione semplicistica e manichea del conflitto ruandese: mentre i Ruandesi si rinchiudevano nei loro campi rispettivi, accusandosi reciprocamente di essere responsabili delle disgrazie del paese, gran parte della Comunità Internazionale considerava i Tutsi come i buoni e gli innocenti, vittime dei cattivi e assassini Hutu.

Questa visione è stata rinforzata dal fatto che il FPR, presentandosi come protettore della minoranza Tutsi, ha vinto la guerra che l’opponeva al regime di Juvénal Habyarimana e ha imposto la sua “verità”, quella del vincitore.

La pubblicazione del rapporto del HCDH porta senza dubbio un colpo fatale a questa visione semplicistica e manichea. Le sue conseguenze per quanto riguarda la possibilità di riconciliazione tra Hutu e Tutsi sono positive.

– Per molte vittime dei crimini del FPR che, in maggioranza, sono Hutu, non c’era alcuna possibilità di riconciliazione finché, agli occhi della pubblica opinione, essere Hutu voleva generalmente dire essere “assassino” e mai vittima.

– Per molti Tutsi, sentire un Hutu richiedere il riconoscimento della sua qualità di vittima di crimini perpetrati da un’organizzazione tutsi, il FPR, equivaleva a dire che si voleva negare ai Tutsi la qualità di vittime del genocidio del 1994. Ciò sembrava, in qualche modo, negarlo. Questa posizione andava di pari passo col sentimento che una riconciliazione potesse essere possibile mediante il pentimento solo degli Hutu, di tutti gli Hutu senza distinzione e la sua accettazione da parte dei Tutsi.

Questa deduzione è la conseguenza diretta di almeno di tre fenomeni: la propaganda, l’ignoranza e il riconoscimento.

La propaganda: la confusione è stata seminata dal FPR e dai suoi amici, per continuare a nascondere i loro crimini. L’ignoranza: mentre il genocidio dei Tutsi ha avuto una copertura mediatica sufficiente, i crimini del FPR sono stati commessi lontano dalle telecamere. Gli autori dei crimini prendevano infatti sempre cura di assicurarsi che i giornalisti fossero mantenuti lontani o messi nell’impossibilità di avvicinarsi ai luoghi in cui si commettevano i loro crimini. Infine, il riconoscimento: le vittime del genocidio dei Tutsi temono che il riconoscimento della qualità di vittima ai membri dell’etnia hutu possa intaccare la loro e “diluirla”, diminuendone l’importanza.

– Nel superamento di tali questioni, ormai gli Hutu e i Tutsi di buona volontà possono prendere in considerazione una possibile e reale riconciliazione. Tuttavia, questa possibilità dipenderà, beninteso, dal riconoscimento reciproco della sofferenza degli uni e degli altri, senza per questo che tale riconoscimento possa fare dimenticare che ci sono dei criminali in ogni campo, la cui sorte dovrebbe essere decisa in seno alle istituzioni giudiziarie o da un’eventuale commissione Verità e Riconciliazione.

6. VERSO LA FINE DELL’IMPUNITÀ E UN INIZIO DI GIUSTIZIA

Dei milioni di morti.

Dietro la radiografia delle violazioni più gravi dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario commesse tra marzo 1993 e giugno 2003 in RDCongo si nasconde un decennio di massacri, stupri e saccheggi a cui presero parte vari paesi membri della regione. La conseguenza è un numero indeterminato di morti, ma che si codifica in milioni di vittime.

Secondo le cifre dell’ONU e delle organizzazioni umanitarie, oltre 200 000 Hutu sono spariti all’epoca dell’avanzata dell’AFDL/APR nell’ex Zaire e durante l’amministrazione ruandese in Congo, poi del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD), nel Kivu. Secondo l’ONG International Rescue Committee, 3,8 milioni di persone sarebbero perite, in RDCongo, tra agosto 1998 e aprile 2004, a causa della guerra. La maggior parte dei crimini sono, salvo alcune poche eccezioni, rimasti impuniti. Se si prende in considerazione il periodo che va dal 1990 ai nostri giorni, gli esperti stimano il numero di vittime, in Ruanda e in RDCongo, dai 6 agli 8 milioni di persone.

È ora che i responsabili di questi crimini di un’ampiezza storica, rendano finalmente conto dei loro atti davanti alla giustizia internazionale. È l’unico modo per impedire che questi milioni di esseri umani, vittime della sete di potere da parte di veri e propri criminali e dell’indifferenza colpevole di molto altri, non periscano una seconda volta, abbandonati nei dimenticatoi della storia.

Implicazione internazionale.

I militanti dei Diritti dell’uomo accusano i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito di essere gli alleati del Presidente Paul Kagamé, per il fatto che aiutando il Ruanda, l’hanno utilizzato come piattaforma, in vista di indebolire l’influenza francese nella regione. Ed è per questo che non vogliono inchieste su di lui. “La domanda è ancora oggi la stessa di prima: c’è una vera volontà politica per identificare gli assassini e portarli in giustizia?”, si è chiesto Reed Brody, un esperto dell’ONU che ha aiutato a redigere il rapporto del 1998.

Cosa fare.

La pubblicazione del rapporto dell’Alto-commissariato dell’ONU per i diritti dell’uomo, su un decennio d’atroci guerre su suolo congolese, esige di rinforzare urgentemente la giustizia internazionale.

La compilazione dei rapporti esistenti e la raccolta di nuove testimonianze forniscono una base per futuri procedimenti giudiziari contro gli autori di ciò che il HCDH qualifica di “crimini contro l’umanità, crimini di guerra e, addirittura, di crimini di genocidio” dopo anni di impunità.

Il documento deve costituire la base per l’istituzione di meccanismi giudiziari adatti, come la creazione di un tribunale – internazionale o misto – e di una commissione verità e riconciliazione, per mettere fine al ciclo dell’impunità nella regione. La maggior parte dei crimini denunciati nel rapporto escono, infatti, dal campo di competenza della Corte Penale Internazionale che, creata nel 2002, non può dirimere su crimini commessi prima della sua creazione.

Se, nel rapporto, i nomi dei gruppi armati sono stati citati, non vi appaiono invece le informazioni sull’identità degli autori presunti di certi crimini, tuttavia “registrati in una banca dati confidenziale”.

“Se questi massacri commessi a grande scala non vengono puniti, la regione dei Grandi Laghi Africani sarà condannata a vivere nuove atrocità”, avverte Reed Brody che, nel 1997-1998, aveva già svolto indagini per conto dell’ONU su questi crimini.

Il rapporto avanza la pista di un tribunale misto internazionale, indipendente dal sistema giudiziario congolese (tipo Sierra Leone) o quella di camere miste specializzate, integrate al sistema giudiziario nazionale (tipo Cambogia). Tuttavia, il rapporto dichiara che la scelta del meccanismo più appropriato spetta “esclusivamente al governo della RDCongo”.

Da parte sua, Kinshasa ha già fatto la sua scelta. Senza alcuna sorpresa, alla fine di agosto, il ministro congolese della Giustizia, Luzolo Bambi, ha annunciato che si stava già redigendo un “progetto di legge per creare delle camere specializzate in seno alle giurisdizioni congolesi”, composte unicamente da magistrati congolesi. A questo punto, si può legittimamente esprimere dei dubbi sulla parzialità di una giustizia congolese che, con scarsissimi mezzi, ha già molte difficoltà nell’amministrare la giustizia ordinaria.

7. LE LINGUE SI SCIOLGONO

Un’intervista a Louise Uwacu.

Louise Uwacu, scrittrice di nazionalità canadese ma originaria del Ruanda, è una superstite del genocidio del 1994. Militante per la pace, è presidente dell’Ong Positivisvison. Ecco la sua intervista rilasciata a Voxafrica il 02.10. ’10, all’indomani della pubblicazione ufficiale del rapporto redatto dall’Alto-commissariato per i diritti dell’uomo dell’ONU.

D.: Lei è una superstite del genocidio commesso in Ruanda nel 1994 contro i Tutsi. Il rapporto cita un altro genocidio commesso, questa volta, contro gli Hutu nell’est della RDCongo. Le urta il paragone di questi due termini di genocidio?

R.: “Non basta sopravvivere alla guerra, ai massacri, al genocidio. Occorre anche ridivenire un essere umano che ha un cuore e che può, al di là della sua propria sofferenza, essere capace di vedere la sofferenza del proprio vicino.

Non bisogna perdersi nella terminologia dei nostri drammi. C’è stato un genocidio in Ruanda e, se c’è stato un genocidio in Congo,… ciò che è importante è il fatto di ricordarsi che il sangue versato è il sangue di un essere umano, che sia il vostro sangue, che sia il sangue di un congolese, di un somalo, di un nigeriano, occorrerà che l’africano, l’Africa, si svegli e che si renda conto che è il sangue africano che è versato da generazioni e ciò continuerà…

Se c’è stato un genocidio in Congo, ne daranno le prove, lo dimostreranno e, in ogni modo, se l’Onu lo sta dicendo adesso, vuol dire che lo sanno da tempo e che è ciò che vedono e ciò che osservano. E, del resto, se lo pubblicano oggi, vuol dire che hanno completamente fallito nella loro missione che si suppone essere una missione di pace, una missione che fa che ciò non succeda. E dunque, se sono loro che lo pubblicano, forse è successo.

Le potenze internazionali che vogliono approfittare delle ricchezze del cuore dell’Africa hanno approfittato della sofferenza di Sua Eccellenza Paul Kagame, hanno approfittato del fatto che era stato un rifugiato dalla sua infanzia, hanno approfittato della sua sofferenza e della sua passione per il suo Paese, l’hanno armato, l’hanno utilizzato. E ora che non ne hanno più bisogno, vogliono sbarazzarsene.

Hanno fatto la stessa cosa con molti dirigenti africani. Li utilizzano, li si prende per delle marionette, li si manda nelle missioni e ci se ne infischia mentre lavorano, mentre servono i loro interessi, ci se ne infischia di quanto sangue versano, di quante persone massacrano e sterminano. Ma, appena non li si vuole più, ecco, li si accusa di ogni tipo di crimini.

Ciò fa parte di un’organizzazione, di tutta una scala…. non bisogna centrarsi su Paul Kagame, bisogna andare al di là: chi l’ha armato, chi lo consiglia, chi gli dà tutto questo potere per poter fare ciò che sta facendo. Dunque, se vogliamo una vera giustizia, è come una mafia. Quando volete attaccarla, quando volete fare giustizia, non attaccate solo le persone, i soldati e i militari che vedete in basso, andate all’alto livello e cercate i grandi capi. Dunque, si tratta di tutta un’organizzazione, di una piramide.

E se un giorno gli Africani vogliono avere la pace e la giustizia, occorrerà che si vada al di là di Paul Kagame e che ci si renda conto che si è manipolati dalle grandi potenze che, esse, possono strumentalizzare un’altra persona e utilizzarla per i loro scopi.

La giustizia passa per la verità. La verità attraversa il fuoco senza mai bruciare, recita un proverbio ruandese. Dunque, che la verità sia detta, che si tratti della verità da parte dei Tutsi, che si tratti della verità da parte degli Hutu, che si tratti della verità da parte del Congo, nel Sudan, in Uganda. Che la verità sia detta e quando, in seguito, ci si sarà distaccati da tutto ciò, si avrà la giustizia. La nostra giustizia è la verità, perché ci sono molte menzogne, molte manipolazioni. Queste potenze ci dicono: veniamo a salvarvi, mentre, in realtà, non vengono per salvarci.

Se occorre istituire un tribunale per il Congo, si convocherà Bill Clinton, si convocherà Tony Blair, si convocherà Sarkozy, si convocheranno tutte le altre persone che sono in alto nella gerarchia e che hanno il maggior ruolo nello sterminio degli Africani? Li si convocherà? Si convocheranno la famiglia reale del Belgio e la famiglia reale dell’Inghilterra? Il tribunale internazionale per la Sierra Leone non ha certo accusato le famiglie reali dell’Europa che portano, tuttavia, dei diamanti macchiati di sangue, il nostro sangue. Non sono mai convocati. Dunque, la nostra giustizia, la giustizia africana è la verità.

Incoraggio tutti, tutti coloro che sono implicati e, del resto, ciò che consiglio a Paul Kagame, è che diventi un testimone, perché il motivo per cui vogliono eliminarlo, emarginarlo, non è perché improvvisamente si rendono conto che è un criminale, ma perché sa troppe cose.

Allora, che diventi un testimone e che dica la verità e che dica il ruolo che tutte queste grandi potenze stanno avendo.

Si approfitta della sofferenza e del dolore delle persone. Si viene, vi si prende, siete un rifugiato che ha vissuto all’esterno del vostro paese durante una ventina d’anni. E’ sicuro che volete ritornare in patria. E, bene, vi si dice: Ecco, se massacrerete tutte quelle persone, vi si metterà al potere, vi si sopporterà, diventerete presidente, vi si appoggerà. Ma, vedete, senza nessun interesse per il vostro popolo, perché, dopo tutto, chi muore in tutti questi conflitti? Alla fine della giornata, ci si rende conto che siamo noi che moriamo in tutti questi conflitti e che, alla fine della giornata, i potenti rimangono, tranquilli e rilassati, a Parigi, a Londra, (a Bruxelles, a Washington, a New York).

Valutazione del Rapporto da parte di Human Rights Watch.

“Questo rapporto dettagliato e approfondito è una chiara illustrazione dell’ampiezza dei crimini commessi nel Congo e della palese assenza di giustizia”, ha dichiarato Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch. “Questi avvenimenti non possono più essere passati sotto silenzio. Seguito da una decisa azione regionale ed internazionale, questo rapporto potrebbe costituire un grande contributo alla fine dell’impunità”.

“È tempo di identificare e di intraprendere delle procedure giudiziarie contro le persone che hanno perpetrato e ordinato tali atrocità, andando fino al vertice della catena di comando”, ha insistito Kenneth Roth, continuando: “I governi del mondo hanno mantenuto il silenzio quando centinaia di migliaia di civili non armati venivano massacrati in Congo. Oggi hanno la responsabilità di assicurare che sia resa giustizia”.

Uno dei passaggi del rapporto più controverso riguarda i crimini commessi dai militari ruandesi. Il rapporto dell’ONU solleva la questione di sapere se certi di questi crimini possono essere qualificati come crimini di genocidio. Le questioni della qualifica e della terminologia sono importanti, ma non dovrebbero però eclissare la necessità di agire sul contenuto del rapporto, qualunque sia il modo con cui i crimini sono qualificati “, ha spiegato Kenneth Roth. Per lo meno, le truppe ruandesi e i loro alleati congolesi hanno commesso, a vasta scala, dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità e un grande numero di civili sono stati uccisi in tutta impunità. È di questo che dobbiamo ricordarci ed è questo che richiede un’azione concertata per la giustizia”.

“Questo documento va al di là di un semplice rapporto storico “, ha concluso Kenneth Roth. “In Congo, numerosi tipi di crimini commessi contro i civili e descritti dal gruppo dell’ONU continuano ancora oggigiorno, favoriti da una cultura di impunità. Per mettere fine a questo ciclo di impunità e di violenza, sarà essenziale la creazione di un meccanismo di giustizia incaricato di trattare i crimini del passato e del presente”.

Un redattore del Rapporto si esprime.

Secondo Luc Côté, membro del gruppo che ha redatto il rapporto dell’Alto-commissariato dell’ONU per i diritti dell’uomo, i crimini di guerra perpetrati contro gli Hutu in Repubblica Democratica del Congo (RDC) tra il 1996 e il 1997 ricordano il genocidio ruandese del 1994.

Luc Côté, un abitante del Quebec che ha lavorato presso il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda dal 1995 al 1999, ha spiegato che, all’epoca della prima guerra del Congo, tra il 1996 e il 1997, le truppe tutsi ruandesi e i loro alleati ribelli dell’AFDL hanno “sistematicamente preso di mira, cacciato, massacrato, immolato e sparato” sugli Hutu.

“Sono caduto dalle nuvole” durante questa inchiesta, ha detto Côté. “In Congo, ho osservato dei comportamenti che avevo già visto in Ruanda” all’epoca del genocidio, dall’aprile al luglio 1994. “Era la stessa cosa. Decine e decine di massacri si sono svolti sullo stesso modello. Ciò è accaduto in modo sistematico”, ha aggiunto. “Il fatto che si prenda di mira un gruppo specifico; il fatto che nei discorsi si inciti a sbarazzarsi di tutti questi Hutu”, che ciò sia accaduto in modo sistematico, che i cadaveri siano stati inceneriti, che tutto sia stato fatto per nascondere le prove e impedire agli stranieri di recarsi sui posti; tutto questo, sottomesso ad un tribunale, può costituire un insieme di prove che permettono di concludere che c’è stato il tentativo di decimare un gruppo, ciò che è considerato come un genocidio”, ha affermato Luc Côté.

Degli Hutu ruandesi rifugiatisi in Zaire sarebbero stati dunque presi di mira non a causa della loro implicazione nel genocidio dei Tutsi nel 1994, ma in quanto Hutu e, dunque, presi di mira come tali. Da ciò deriva la rievocata e possibile qualifica di “crimini di genocidio”. Resta da sapere, come ha sottolinealo il rapporto, se questi atti entrassero nel quadro di un piano concertato.

“Credevo di avere visto il peggio all’epoca del genocidio in Ruanda. Abbiamo delle testimonianze dal Congo che dimostrano che ciò che è accaduto è altrettanto terribile di ciò che ha avuto luogo in Ruanda, ha detto Côté. In Ruanda, ciò è durato tre mesi. In Congo, non si è mai interrotto”.

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“Non avendo costruito il mondo con umanità, si è costretti di fare delle azioni umanitarie” – Pierre Rabhi, filosofo ed agronomo algerino.
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