Congo Attualità n. 109 – Supplemento

Dedicato al Rwanda

SOMMARIO

1. NEWS
2. A CHE PUNTO È “VISION 2020”?

NEWS

Il 16 aprile, Eugène Gashugi e Freddy Mutanguha, rispettivamente vicepresidente e segretario generale di Ibuka, il collettivo delle associazioni dei superstiti del genocidio perpetrato contro i Tutsi nel 1994, sono stati arrestati e detenuti per cattiva gestione dell’assistenza assegnata ai superstiti.

L’arresto dei due uomini avviene dopo quella di altri tre quadri di Ibuka: Benoît Kaboyi, segretario esecutivo, Naphtal Ahishakiye ed Emmanuel Nsengiyumva, responsabili rispettivamente della memoria e delle finanze. Secondo l’accusa, oltre 400 milioni di franchi ruandesi (circa 666.000 dollari) sono spariti dalle casse dell’organizzazione e gli indiziati dovranno dimostrare come sono stati utilizzati. Sono accusati anche di avere gonfiato, in certi distretti, “le liste di beneficiari fantasmi e il numero dei superstiti del genocidio”. Parecchi altri responsabili di Ibuka sono oggetto di inchieste per deviazione di fondi.

Il 23 aprile, la giustizia rwandese ha annunciato l’arresto di tre militari presentati come ufficiali ribelli hutu e complici dell’oppositrice Victoire Ingabire in atti di destabilizzazione del paese”. La Sig.ra Ingabire, candidata dichiarata all’elezione presidenziale prevista in agosto, è accusata di “associazione con un gruppo terroristico”, le Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda (FDLR) basate nell’est della RDCongo. Secondo il procuratore generale Martin Ngoga, “i tre ufficiali delle FDLR hanno affermato di avere collaborato con la Ingabire per provocare insicurezza e destabilizzare il Rwanda. Si tratta di due tenenti-colonnelli, Tharcisse Mbiturende e Noël Habiyakare e del tenente Jean Marie Karuta. I primi due sono stati arrestati in un paese vicino (il Burundi), mentre il terzo è stato arrestato sul territorio rwandese. Sempre secondo Martin Ngoga, i tre ribelli hutu riconoscono di avere incontrato a più riprese la Sig.ra Ingabire a Kinshasa, in RDCongo, e affermano che, in alcune occasioni, ella ha dato loro un appoggio, anche finanziario”.

Il 28 aprile, i ribelli hutu ruandesi basati nell’est della Repubblica Democratica del Congo hanno smentito ogni legame con Victoire Ingabire perseguita dalla giustizia ruandese per collaborazione con il loro gruppo. In un comunicato, il segretario esecutivo delle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR), Callixte Mbarushimana, residente in Francia, afferma che tali affermazioni senza fondamento non mirano che a seminare paura, terrore, smarrimento e tensione in seno alle organizzazioni che lottano contro il regime di Kigali, affinché abbassino la guardia e abbandonino la lotta”. Le FDLR dichiarano che “i tre individui sono stati corrotti dal regime del FPR” (Fronte Patriottico Rwandese) del presidente Paul Kagame e che i tre uomini avevano disertato le file delle FDLR”, già in ottobre 2007 nel caso di Habiyaremye e in maggio 2008, nel caso degli altri due.

Il 24 aprile, Human Rights Watch, un ONG per la difesa dei diritti dell’uomo, ha reso pubblico che le autorità rwandesi hanno rifiutato di rinnovare il visto alla ricercatrice Carina Tertsakian, portando come motivo certe anomalie nella formulazione della sua richiesta. HRW precisa di avere moltiplicato, in vano, le pratiche presso le autorità rwandesi per certificare l’autenticità dei documenti allegati alla richiesta di rinnovo del visto. Carina Tertsakian, britannica, era arrivata in Rwanda il 25 gennaio e aveva ottenuto un visto di lavoro, precisa il comunicato. Secondo l’ONG, questo caso particolare si inserisce in un contesto “di crescente intolleranza nei confronti di ogni forma di contestazione e di voci critiche in questo periodo pre-elettorale”. “Durante le ultime settimane, abbiamo assistito ad un vero e proprio tentativo di imbavagliare ogni voce critica. Il governo rwandese fa di tutto per ridurre al silenzio, prima delle elezioni, le voci indipendenti”, ha deplorato Georgette Gagnon, direttrice della divisione Africa di Human Rights Watch.

In modo più generale, Human Rights Watch ha constatato che numerosi Rwandesi non possono esprimere apertamente le loro opinioni. Le persone che criticano il governo o i suoi politici rischiano di essere qualificati come oppositori, conniventi coi partiti di opposizione o con le persone sospettate di volere rovesciare il governo e possono essere addirittura accusate per “ideologia genocidaria”, un crimine vagamente definito, passibile da 10 a 25 anni di imprigionamento.

Il giudice istruttore parigino Marc Trévidic, incaricato dell’inchiesta sull’attentato contro l’aereo del presidente rwandese Juvénal Habyarimana nell’aprile 1994, ha designato una commissione di periti per tentare di ricostituire le circostanze del dramma. Il magistrato ha designato cinque periti in balistica, esplosivi, aeronautica, geometria e topografia. Accompagnati dai giudici istruttori, questi periti dovrebbero recarsi in Ruanda nei prossimi mesi. Dovranno stabilire la traiettoria del Falcon 50 quando fu colpito da un missile Sam-16 mentre era in fase di atterraggio sull’aeroporto di Kigali e determinare la natura del proiettile e l’area dei tiratori. Il loro rapporto è atteso per marzo 2011. L’origine dei tiri è al cuore dell’inchiesta sulle responsabilità di tale attentato. A questo stadio, gli inquirenti francesi sospettano la ribellione tutsi del Fronte Patriottico Rwandese, allora capeggiata dall’attuale presidente Paul Kagame: il commando artefice dei tiri si sarebbe infiltrato, oltrepassando il dispositivo delle Forze Armate Rwandesi (FAR), sulla collina di Massaka che sovrasta l’aeroporto ad est della pista. Da parte sua, il governo rwandese ha istituito una commissione di inchiesta che ha addossato la responsabilità dell’attentato all’ala estremista “Hutu Power” delle FAR. Secondo tale rapporto, che include una perizia balistica realizzata da periti britannici, i tiri sono partiti dal campo militare di Kanombe, importante base delle FAR, situato nelle immediate vicinanze dell’aeroporto e della residenza presidenziale a sud-est. L’assassinio del presidente Juvénal Habyarimana è considerato come il segnale detonante del genocidio rwandese.

Il 30 aprile, il presidente rwandese, Paul Kagamé, era l’invitato d’onore di una cerimonia tenutasi all’università cristiana dell’Oklahoma, negli Stati Uniti, in onore di neo diplomati rwandesi.

Mentre il presidente pronunciava il discorso d’apertura, all’esterno della sala dei manifestanti brandivano dei cartelli di protesta e, all’interno, un gruppo di avvocati ha tentato di consegnare a dei membri della delegazione presidenziale un avviso di citazione giudiziaria per lo stesso Paul Kagame e un atto di accusa nei suoi confronti. Mentre le guardie del corpo di Kagame hanno rifiutato di accettare i documenti presentati dagli avvocati, le autorità dell’università hanno ordinato agli avvocati di sloggiare e Kagame stesso ha dovuto lasciare la sala prima del previsto, circondato dalle sue guardie del corpo.

L’accusa rivolta contro il Presidente Kagame – e nove dei suoi attuali collaboratori ed ex ufficiali dell’esercito – è che tutti loro si sarebbero resi colpevoli di assassinio degli ex presidenti ruandese Juvénal Habyarimana e burundese Cyprien Ntaryamira ed avrebbero così provocato i massacri del 1994, conosciuti con il nome di genocidio rwandese.

L’accusa è stata depositata dalle vedove dei due presidenti assassinati.

Elle sostengono anche che l’attuale presidente del Ruanda e gli altri accusati si sarebbero resi colpevoli anche di atti di estorsione, come definito dalla legge americana del “Racketeer Influenced and Corrupt Organizations (Rico) Act”, per avere il controllo delle risorse naturali e minerarie della RDCongo.

La notificazione si appoggia su argomenti relativi alla competenza degli Stati Uniti sulla base della legge americana del “Alien Tort Claims Act” e la legge federale del “Extraterritorial Torture Statute.”

Le due vedove non vivono negli Stati Uniti, ma affermano che il tribunale federale di Oklahoma City può fare giurisdizione sulle loro rivendicazioni, a causa degli importanti legami che il Presidente Kagame intrattiene con l’università Cristiana d’Oklahoma.

Gli otto capi di accusa sono i seguenti:

1. Morte sospetta e Assassinio;
2. Crimini contro l’umanità;
3. Violazione del Diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale;
4. Colpi e ferite;
5. Amministrazione intenzionale di sofferenze emozionali,
6. Violazione della legge americana del “Racketeer Influenced and Corrupt Organisation (Rico) Act”,
7. Tortura e
8. Complotto in vista della tortura.

Il 10 maggio, l’Unione Europea ha accordato un aiuto di 73,8 milioni di euro al Rwanda per contribuire allo sviluppo rurale e al miglioramento della rete stradale e delle istituzioni.

“Sono dei settori chiave dello sviluppo, della lotta contro la povertà e del consolidamento della democrazia”, sottolinea Michel Arrion, ambasciatore dell’UE a Kigali, in un comunicato.

Sui 73,8 milioni di euro, 32 saranno destinati al miglioramento della strada che conduce verso l’Uganda e 12 milioni andranno al bilancio della giustizia, del mantenimento dell’ordine e del programma di riconciliazione. A tre mesi dalle elezioni presidenziali, 5,3 milioni saranno assegnati alla commissione elettorale e 4,5 dei 20 milioni restanti permetteranno di migliorare la sicurezza alimentare.

Incredibile ma vero: l’Unione Europea ha deciso di non mandare suoi osservatori per le prossime elezioni che si terranno in Rwanda in agosto 2010, ma manda un dono di 73,8 milioni di euro, di cui 5,3 milioni alla Commissione Elettorale. Così dunque, avendo deciso di non mandare osservatori elettorali, l’Unione Europea si affretta a mandare dei milioni di euro per finanziare la mascherata elettorale di agosto 2010, destinata a riconfermare il dittatore Paul Kagame alla guida del Ruanda mediante un risultato di tipo stalinista.

Né gli appelli delle ONG come Eurac, né le messe in guardia delle organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo, come Human Rights Watch o Amnesty International, non hanno potuto convincere l’Unione Europea che ciò che accadrà in agosto sarà tutto, eccetto un’elezione democratica. Tuttavia, l’Unione Europea e più particolarmente il suo rappresentante a Kigali, il belga Michel Arrion, conosce bene la situazione politica di questo paese, in cui la stampa è imbavagliata, l’opposizione politica non ha alcun diritto alla parola e all’esistenza, l’arbitrarietà e i regolamenti dei conti costituiscono i fondamenti della giustizia.

Gli osservatori avvertiti avranno notato la costante ossessiva dell’UE nel chiudere gli occhi sulle pratiche dittatoriali del regime Kagame e, nello stesso tempo, nel fornirgli sostanziali appoggi, sia diplomatici che finanziari.


2. A CHE PUNTO È “VISION 2020”?

“Vision 2020”, un piano di riforme scaglionate su 20 anni, mira a fare del Ruanda un protagonista regionale di primo piano. Una versione africana di Singapore. Ma che ne è realmente di Vision 2020?

Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD) ha fatto una valutazione di metà percorso di Vision 2020 e ha constatato una situazione piuttosto disastrosa: la povertà è in aumento e colpisce il 62% della popolazione rurale, quando nel 1990 l’indice era del 50%; circa il terzo della popolazione rwandese soffre di carenze alimentari; lo scarto tra i ricchi e i poveri sta raggiungendo un livello record e colloca il Ruanda fra i primi 15 paesi del mondo in cu maggiore è la disuguaglianza.

Il confronto con gli altri paesi africani dimostra che, per molti fattori di sviluppo economico, il Rwanda è il fanalino di coda. Per esempio, secondo i dati del PNUD e della Banca Mondiale, la speranza di vita dei Rwandesi è di 44 anni, ciò che è inferiore alla media africana di 46 anni. Meno del 45% dei bambini terminano la scuola elementare, mentre la media dell’Africa subsahariana è del 60%.

Il tasso di scolarizzazione nelle scuole superiori è del 17%, in confronto al 28% per l’Africa subsahariana. Nel 2009, nella classifica generale dei paesi secondo l’indice di sviluppo umano, che fa la sintesi della speranza di vita, del livello di vita e del livello di studi, il PNUD colloca il Rwanda tra i quindici ultimi paesi al mondo, ossia dietro la maggioranza dei trentotto paesi dell’Africa subsahariana.

Alla luce di questi dati e sapendo che il Rwanda di Paul Kagame è uno dei favoriti dai finanziatori occidentali che gli accordano un sostanziale aiuto di 55 $ per abitante, circa il triplo della media africana che è di 20 $ per abitante, la splendida città di Kigali riveste un altro volto, quello della concentrazione della ricchezza e dell’accaparramento dell’aiuto estero da parte di una minoranza urbana prossima al potere.

L’assenza di ogni traccia di miseria a Kigali, contrariamente ad altre città africane, è ottenuta al prezzo della violazione dei diritti dei senzatetto e dei bambini della strada, che sono in prigione nell’isola di Iwawa, come l’ha rivelato il giornale The New York Time l’1 maggio 2010.

Peggio ancora, il contrasto tra il fasto della città e la miseria della campagna è il risultato di una discriminazione etnica più forte che mai.

Gli Hutu, che costituiscono l’84% della popolazione rwandese, sono esclusi quasi totalmente dal potere. Sono collettivamente considerati come dei genocidari”.

Le statistiche sono molto eloquenti a proposito della discriminazione contro gli Hutu. L’alto comando dell’esercito ruandese comprende un ufficiale superiore hutu per 1 590 000 abitanti hutu e un ufficiale superiore tutsi per 34 600 abitanti tutsi.

Parimenti, nell’amministrazione pubblica rwandese, si registra un alto dirigente hutu per 500 000 abitanti hutu e un alto dirigente tutsi per 70 000 abitanti tutsi.

Gli orfani hutu della tragedia del 1994 sono abbandonati alla loro triste sorte contrariamente agli orfani tutsi che sono assistiti dal Fondo per l’aiuto ai superstiti del genocidio. La minima evocazione delle atrocità subite dagli Hutu è fortemente repressa dalle vaghe leggi sul “divisionismo” e “l’ideologia del genocidio” che causano un catena di arresti arbitrari.

Al di là dell’apparenza di modernità urbana, il Rwanda assomiglia più ad un vulcano in prossimità di un’eruzione che ad un’isola di prosperità in mezzo alla miseria africana.