Congo Attualità n.241

INDICE

EDITORIALE: STOP AI MASSACRI NEL TERRITORIO DI BENI

  1. I GRUPPI ARMATI

  2. Le Forze Democratiche Alleate (ADF)

  3. Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR)

  4. Il Movimento del 23 marzo (M23)

  5. L’insicurezza a Rutchuru

  6. LE RELAZIONI TRA LA RDCONGO E IL RUANDA

  7. Un’incursione di militari ruandesi in territorio congolese

  8. La delimitazione delle frontiere tra la RDCongo e il Ruanda

  9. L’operazione di registrazione digitale dei rifugiati ruandesi

  10. RISORSE NATURALI

  11. Il rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (PNUE)

  12. Il rapporto di Amnesty International e Global Witness

 

1. I GRUPPI ARMATI

a. Le Forze Democratiche Alleate (ADF)

Il 15 aprile, diciannove persone (13 uomini e 6 donne) sono state uccise a colpi di machete a Beni, una zona dell’est della RDCongo dove, da più di sei mesi, si stanno svolgendo numerosi massacri di civili. Questa situazione perdura nonostante la presenza dei caschi blu dell’Onu e dell’esercito. L’amministratore del territorio, Amisi Kalonda, ha affermato che nove delle vittime sono state decapitate e ha precisato che le vittime sono state uccise verso le 9:00 del mattino, mentre si recavano nei campi. Attribuito ai ribelli ugandesi ADF, l’attacco è avvenuto a Matiba e a Kinzika, due località del settore di Beni Mbau. Dal mese di ottobre 2014, sono state uccise più di 300 persone, per lo più all’arma bianca.[1]

Il 19 aprile, due ribelli ugandesi delle ADF sono stati arrestati in due quartieri situati nei pressi della città di Beni (Nord Kivu). Secondo fonti dei servizi di sicurezza, questi presunti ADF hanno fatto alcune rivelazioni importanti sugli ultimi massacri commessi a Beni contro la popolazione civile. Uno di loro ha fatto riferimento a una rete di rifornimenti alle ADF, guidata da un ufficiale superiore delle FARDC. L’altro ha ammesso l’esistenza di un gruppo delle ADF nei dintorni di Beni, per commettervi dei massacri di civili.[2]

Il 23 aprile, nel villaggio di Kalongo, nella località di Kipera, a 6 km a nord-ovest di Oïcha (Nord Kivu), cinque persone sono state uccise, all’arma bianca, da presunti membri delle ADF.[3]

Il 26 aprile, dopo tre giorni di pesanti combattimenti, le forze armate della RDCongo hanno ripreso il controllo di un campo dei ribelli ugandesi delle ADF a Baruku, situato tra i due fiumi Bango e Semuliki, nel territorio di Beni. Il comandante dell’operazione “Sokola 1”, il generale Akili Muhindo, ha affermato che il vice comandante delle ADF, Muzamir Kiribaki Kasadha, è stato ucciso nei combattimenti. Il comandante dell’operazione “Sokola 1” ha precisato che la persona uccisa è la terza personalità più graduata del gruppo e istruttore delle unità di combattimento delle ADF. Secondo altre fonti dei servizi di sicurezza, dopo la conquista del campo ribelle di Baruku, le FARDC hanno recuperato diverse armi, una grande riserva di munizioni, una grande quantità di machete e molti documenti di istruzioni ad uso delle ADF. Secondo tali fonti, le FARDC hanno continuato la ricerca del numero 2 delle ADF che sarebbe a capo di un centinaio di uomini, nella zona di Medina.[4]

Il 28 aprile, le Forze Armate della RDCongo (FARDC) hanno affermato di avere scoperto quattro fosse comuni nella località di Bango, in territorio di Beni, a oltre 350 km a nord di Goma (Nord Kivu). Secondo fonti militari della regione, questa scoperta è stata fatta in un ex campo dei ribelli ugandesi delle ADF di Baruku, già riconquistato dalle FARDC nel quadro dell’operazione Sokola 1. Il portavoce militare del settore operativo del Gran Nord e dell’operazione “Sokola 1”, il maggiore Victor Masandi Bubitende, ha chiesto un’inchiesta internazionale per chiarire il caso.
«È durante gli scontri avvenuti dopo la fuga di Baruku, il numero 2 della ADF a Bango, che le nostre forze hanno occupato il campo Bango, detto campo “Baruku”, e che hanno scoperto le quattro fosse comuni contenenti i resti di persone umane», ha dichiarato il maggiore Victor Masandi. Questo ufficiale dell’esercito congolese ha affermato che in queste fosse comuni ci possono essere i corpi dei ribelli ADF uccisi durante gli scontri con le FARDC e degli ostaggi uccisi prima dell’arrivo delle FARDC nel campo di Baruku.[5]

Il 30 aprile, il giornale ufficiale ugandese, New Vision, ha affermato che il capo delle ADF, Jamil Mukulu, è stato arrestato in Tanzania, dov’è attualmente detenuto in attesa di estradizione verso l’Uganda. La polizia ugandese e quella tanzaniana non hanno né confermato, né smentito l’informazione su tale arresto. Jamil Mukulu, 51 anni, è ricercato dall’Uganda per una serie di crimini, tra cui atti di “terrorismo” e massacri di civili. Su richiesta di Kampala, anche Interpol aveva emesso un mandato di cattura contro di lui.[6]

Il 3 maggio, tra le FARDC e i ribelli ugandesi delle ADF si sono registrati degli scontri a Parikingi e a Kokola (Nord Kivu). Il bilancio è stato di quattordici membri dell’ADF uccisi e cinque armi recuperate. Secondo il portavoce delle FARDC a Beni, il maggiore Victor Masande, durante gli scontri, sono rimasti uccisi anche quattro soldati delle FARDC. Sempre secondo il maggiore Victor Masande, l’esercito ha continuato ad esercitare pressioni sulle ADF nella zona di Bango, situata nell’estremo nord-est del territorio di Beni.[7]

Il 4 maggio, verso le 11h00, nel territorio di Oïcha, a 20 km a nord di Beni, un elicottero della Monusco, che trasportava il comandante della forza della missione dell’Onu, è stato colpito da spari lanciati da uomini armati non identificati. Anche se, per il momento, non vi è stata alcuna rivendicazione, le Nazioni Unite hanno sospettato i ribelli ADF di esserne i responsabili.[8]

Il 5 maggio, due caschi blu tanzaniani delle Nazioni Unite sono stati uccisi, 13 sono stati feriti e quattro sono scomparsi in un’imboscata attribuita ai ribelli ugandesi delle ADF. I caschi blu sono stati attaccati nel villaggio di Kikiki, situato a circa 50 chilometri a nord della città di Beni, nella provincia del Nord Kivu.[9]

L’8 maggio, l’Uganda ha chiesto alla Tanzania l’estradizione del capo ribelle delle ADF, Jamil Mukulu. Una delegazione del corpo della polizia ugandese si è recata a Dar es Salaam per interrogarlo ed eventualmente procedere al suo trasferimento, nel caso in cui la Tanzania ne concedesse l’autorizzazione.[10]

L’8 maggio, durante la notte, dei presunti ribelli ADF hanno ucciso sette persone nel quartiere Matembo, della municipalità di Mulekera, a 1 km a sud dell’aeroporto di Mavivi, in territorio di Beni (Nord Kivu). Secondo la Società civile, questo massacro ha portato a oltre 300 il numero dei civili uccisi, in soli cinque mesi, in questa parte del Nord Kivu.

Alcuni testimoni hanno detto che gli aggressori, incappucciati, erano armati e indossavano uniformi militari. Tra le sette vittime, due donne. Un sopravvissuto, un bambino di sette anni, ha affermato che, tra gli uccisi, ci sono stati anche i 4 membri della sua famiglia. Secondo la sua testimonianza, gli assalitori hanno fatto uscire i suoi genitori dalla casa, poi li hanno uccisi a colpi di machete e di asce, a pochi metri dalla loro casa. Questi presunti ribelli ADF hanno portato via capre e altri animali domestici, hanno saccheggiato tutto, compreso un deposito in cui erano conservati i materiali d’una piantagione di cacao.

La società civile si è detta sorpresa dal fatto che, a soli due chilometri dal luogo dell’attacco, ci siano ben quattro posizioni militari. È il caso dell’aeroporto di Mavivi e del quartiere Ngadi, dove anche la Monusco organizza delle pattuglie diurne. Il presidente di questa struttura, Teddy Kataliko, ha affermato che è necessario interrogarsi sull’efficacia dei servizi di sicurezza in questa regione del Nord Kivu. Si è detto sorpreso anche dal fatto che i servizi di sicurezza e le autorità amministrative non abbiano intrapreso alcuna azione, nonostante fossero stati avvertiti, nei giorni precedenti, della presenza di un gruppo armato nella zona di Matembo. Il responsabile della comunicazione dell’Associazione Africana per la Difesa dei Diritti Umani (ASADHO) di Beni, Kizito Hangi Bin, ha dichiarato che l’Asadho aveva già chiesto «una permutazione del comando militare dell’operazione Sokola 1, perché le FARDC hanno dimostrato di non essere capaci di garantire la sicurezza della popolazione, dato che i massacri spesso avvengono in prossimità delle loro posizioni».[11]

L’11 maggio, sei persone sono state uccise nel quartiere Kalongo, non lontano dall’aeroporto di Mavivi, in territorio Beni, portando a tredici il numero dei civili uccisi, nel giro di soli tre giorni, in questo territorio. Ancora una volta, il massacro è attribuito ai ribelli ugandesi delle ADF.
Secondo dei testimoni, verso le 17h30, una quarantina d’uomini armati e muniti di machete, hanno fatto irruzione nel quartiere di Kalongo e hanno compiuto il massacro. Al crepuscolo, le vittime “stavano tornando dai campi”, quando sono state attaccate da “presunti ADF”, ha dichiarato Amisi Kalonda, amministratore del territorio di Beni.[12]

Il 13 maggio, durante la notte, uomini armati hanno compiuto un massacro a Mapiki e a Sabu, due villaggi del settore di Beni-Mbau situati a circa 30 chilometri a nord-ovest della città di Beni (Nord Kivu). Secondo la società civile locale, una ventina di persone sono state uccise a colpi di machete. Erano circa le 19h00 quando uomini armati hanno fatto irruzione a Mapiki e a Sabu e vi hanno ucciso, con asce e machete, una ventina di persone.

Secondo un rapporto presentato da Teddy Kataliko, presidente della società civile del territorio di Beni, a Mapiki sono state uccise sette persone e a Sabu quindici. Questo nuovo massacro è avvenuto meno di 24 ore dopo la visita del Vice Primo Ministro e Ministro degli Interni, Evariste Boshab, a Beni per una missione di valutazione della situazione di insicurezza nella regione.[13]

b. Le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR)

Il 7 aprile, facendo un primo bilancio delle operazioni militari condotte contro le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) dal 29 gennaio, il comandante della terza zona di difesa dell’esercito congolese, il generale Léon Mushale, ha affermato che le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) hanno ripreso il controllo di trentacinque posizioni, precedentemente occupate dalle FDLR nel Sud e Nord Kivu. L’ufficiale ha precisato che tra le località recuperate, 21 si trovano nel Sud Kivu e 14 nella parte sud del parco dei Virunga, nel Nord Kivu. La stessa fonte ha indicato che i soldati congolesi hanno neutralizzato 237 membri delle FDLR, di cui 13 sono stati uccisi. Il generale Léon Mushale ha parlato anche di 85 armi e di varie munizioni recuperate.[14]

Il 9 aprile, a Kinshasa, il portavoce del Governo, Lambert Mende Omalanga, ha affermato che, per quanto riguarda l’operazione di disarmo forzato delle FDLR, denominata Sukola 2, il bilancio per il periodo compreso dal 27 gennaio fino al 7 aprile è di 162 FDLR catturati, 13 uccisi e 62 arresi senza opporre resistenza e messi a disposizione della Monusco per il loro rimpatrio. Tra questi, ci sono 15 bambini soldato. Inoltre, 342 FDLR si erano volontariamente arresi prima, tra cui 338 prima dell’inizio dell’operazione di disarmo forzato e 4 durante la sua fase preparatoria. Attualmente, si trovano nei siti di Kisangani, Kanyabayonga e Walungu. Finora, il numero totale dei membri delle FDLR neutralizzati è di 575.[15]

Gli abitanti di territori di Rusamambo, Bukumbirwa, Kasiki, Luhanga e Buleusa, nel territorio di Lubero (Nord Kivu), si dicono vittime di varie vessazioni da parte dei membri delle FDLR.

Secondo la società civile locale, i ribelli ruandesi vivono in mezzo alla popolazione e si comportano come padroni, commettendo atti barbarici, come uccisioni, saccheggi e arresti arbitrari. In particolare, essi procedono spesso a saccheggi dei raccolti agricoli e a furti di oggetti di valore, come i telefoni cellulari.

Da parte loro, le FDLR hanno accusato i giovani di questi villaggi di collaborare con le milizie Mai-Mai. Diversi giovani sono stati sequestrati e rilasciati dopo aver pagato una cauzione, il cui importo varia secondo le circostanze.

Le autorità di Lubero hanno affermato che le operazioni contro i gruppi armati sono in una fase di stallo, benché siano state annunciate con grande pompa. «L’esercito congolese si è impegnato a combattere contro le FDLR, ma non abbiamo ancora visto alcun attacco per obbligarle a lasciare il Paese», ha affermato preoccupato uno dei leader della società civile di Lubero.[16]

c. Il Movimento del 23 marzo  (M23)

Il 21 aprile, dopo un primo incontro nel mese di febbraio a Kigali, una delegazione tecnica del Ministero della Difesa congolese si è recata in Ruanda, per incontrare gli ex ribelli del Movimento del 23 marzo (M23), al fine di organizzare il loro rimpatrio volontario. La discussione è stata burrascosa. Secondo gli ex ribelli, «solo 122 di loro sono stati amnistiati» e si chiedono: «Quali garanzie ci danno? Siamo pronti a tornare in Congo, ma tutti, non solo alcuni». Non si è constatato quindi alcun progresso.[17]

Secondo alcune fonti dei servizi di sicurezza, degli ex-M23 raggruppati in campi di addestramento in Ruanda e in Uganda sarebbero pronti a riprendere le ostilità nell’est della RDCongo. Il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, ha confermato l’organizzazione di loro riunioni segrete a Kisoro, Kigali e Kampala. «Abbiamo ricevuto informazioni secondo cui nei paesi vicini, il Ruanda e l’Uganda, è stata creata una nuova ribellione denominata Movimento Cristiano per la Ricostruzione del Congo (MCRC). Gli ex-M23 vogliono infiltrare questo movimento in Congo, per continuare a fare ciò che il M23 e il CNDP avevano già fatto prima», ha detto il capo dell’esecutivo provinciale del Nord Kivu. Degli ex ribelli si sono riuniti in alberghi ben conosciuti in Ruanda e in Uganda, per preparare questo macabro progetto. La popolazione è stata invitata a denunciare i casi di infiltrazione. Qualsiasi atto sospetto deve essere segnalato all’autorità più vicina, ha insistito il capo del governo provinciale del Nord Kivu.[18]

Il 30 aprile, il ministro congolese della Giustizia ha annunciato una nuova ondata di amnistie. Tra i beneficiari, ci sarebbero più di 350 ex-ribelli del Movimento del 23 marzo (M23), rifugiati in Uganda e in Ruanda dopo la loro sconfitta militare verso la fine del 2013.

220 ex ribelli amnistiati sono in Uganda, altri 122 in Ruanda, una trentina sono incarcerati a Kinshasa e quattro sono detenuti a Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, dove il M23 è stato molto attivo. Questi ex ribelli hanno usufruito della legge di amnistia dell’11 febbraio 2014, relativa a “fatti insurrezionali”, “atti di guerra” e “infrazioni politiche”. La condizione per poter beneficiare di questa misura è la firma di un “atto di impegno” alla non recidività.  Dalla legge di amnistia sono esclusi i crimini gravi, come i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, il terrorismo, la tortura, la violenza sessuale, l’arruolamento di bambini soldato, la malversazione di fondi pubblici e  gli atti di saccheggio.

In occasione della sconfitta del M23, in novembre 2013, circa 1.300 combattenti erano fuggiti in Uganda, mentre altri 700 erano già fuggiti in Ruanda. Tuttavia, nel mese di agosto 2014, il M23 aveva rivelato un totale di 3.657 firmatari dell’atto d’impegno.[19]

d. L’insicurezza a Rutchuru

Il coordinamento territoriale della società civile di Rutshuru, nel Nord Kivu, ha affermato  che, tra gennaio e marzo 2015, sono state uccise più di sessanta persone. Essa ha precisato che più di venti altre persone sono state ferite da proiettili e altre ottanta sequestrate. Tra le cause, essa ha citato la presenza di più gruppi armati locali che agirebbero con la complicità di certi militari che sarebbero direttamente implicati negli omicidi, sequestri di persone e saccheggi registrati sul territorio. Per migliorare la sicurezza, la società civile ha raccomandato alle autorità politico-militari la permutazione delle truppe delle FARDC presenti in questo territorio già da molto tempo e ha chiesto di intensificare le operazioni di disarmo di tutti i gruppi armati locali.[20]

Il 29 aprile, a Nyamilima, nel territorio di Rutshuru (Nord Kivu), degli abitanti hanno organizzato una manifestazione per protestare contro l’uccisione di cinque persone, i cui corpi decapitati sono stati ritrovati nei campi, a ovest di Nyamilima. Questa situazione ha creato una forte tensione tra i gruppi etnici Nande e Hutu. Infatti, i Nande hanno attribuito questi omicidi a membri del gruppo etnico Hutu. L’amministratore di Rutshuru ha deplorato la situazione e ha fatto appello alla calma, annunciando l’avvio di un’inchiesta per arrivare alla verità dei fatti. Queste cinque persone, tutte di questa località, si erano recate nei loro campi, due giorni prima, nei pressi di Nyamitwitwi e Kabumbira, ad ovest di Nyamilima. I familiari erano rimasti senza loro notizie e hanno iniziato delle ricerche. Li hanno ritrovati morti nei loro campi. La morte di queste cinque persone porterebbe a 30 il numero dei civili uccisi nel raggruppamento di Binza dall’inizio di gennaio.
La maggior parte di questi omicidi sono attribuiti al gruppo Nyatura, di un certo Kamodoka.[21]

2. LE RELAZIONI TRA LA RDCONGO E IL RUANDA

a. Un’incursione di militari ruandesi in territorio congolese

Il 22 aprile, le autorità congolesi hanno denunciato un’incursione di militari ruandesi in territorio congolese, a circa 120 km a nord di Goma, nel parco dei Virunga, un parco che si estende su entrambi i lati della frontiera congolo-ruandese. Secondo il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, una pattuglia di ricognizione dell’esercito congolese e della guardia forestale del parco ha potuto confermare la presenza di soldati ruandesi sulla collina Musangoti, a 1.000 metri circa all’interno del territorio congolese, nei pressi di Chanzu, nel territorio di Rutchuru.

Gli abitanti hanno segnalato anche altre incursioni, più a sud, sulla collina Ehu, in territorio di Nyirangongo, a circa 30 chilometri da Goma. Varie decine di militari ruandesi avrebbero attraversato la frontiera nella notte tra il 18 e il 19 aprile, per dirigersi verso il parco dei Virunga. Secondo alcune fonti locali del Nord Kivu, le truppe ruandesi avrebbero attraversato il confine già  dal 19 aprile. La prima colonna [RDF] sarebbe entrata attraverso il villaggio di Hehu, presso Kibumba, la notte tra il 18 e il 19 aprile. Nella notte dal 20 al 21 aprile, un’altra colonna avrebbe attraversato il confine nei pressi di Kitotoma, nel raggruppamento di Buhumba. Nella stessa notte, un’altra colonna avrebbe attraversato il confine vicino a Kabuye. Queste testimonianze non sono state confermate ufficialmente. L’unica certezza è che quest’incursione non è la prima.

Le autorità congolesi hanno annunciato di avere avvertito il Meccanismo di Verifica Congiunto (EJVM), un organismo internazionale per il monitoraggio delle frontiere, affinché si apra un’inchiesta sull’accaduto. «Ci chiediamo se la presenza dell’esercito ruandese sul suolo congolese non sia stato un diversivo per favorire l’infiltrazione della nuova ribellione denominata Movimento Cristiano per la Ricostruzione del Congo (MCRC)», ha dichiarato Julien Paluku, governatore del Nord Kivu. Tra i due Paesi, il Ruanda e la RDCongo, gli incidenti di frontiera sono frequenti: non è raro che delle pattuglie dei due eserciti si incontrino a pochissima distanza, senza necessariamente scontrarsi. La frontiera era stata fissata in seguito a un accordo tra il Belgio e la Germania nel 1910, ma oggi è piuttosto mal definita. I rapporti tra la RDCongo e il Ruanda sono spesso tesi. La RDCongo è stata invasa dalle truppe ruandesi durante le due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003) e, fino alla caduta del M23, Kigali ha sempre sostenuto le diverse milizie tutsi attive nel Nord Kivu.[22]

b. La delimitazione delle frontiere tra la RDCongo e il Ruanda

Il 29 aprile, Rachidi Tumbula, uno degli esperti della commissione tecnica congiunta per la delimitazione delle frontiere tra la RDCongo e il Ruanda, ha annunciato che i lavori di localizzazione dei ventidue cippi delimitanti le frontiera termineranno il 30 aprile. Ha pure annunciato l’avvio, a breve tempo, della ricostruzione dei cippi nella zona neutra tra la RDCongo e il Ruanda. Per questo lavoro di demarcazione delle frontiere tra la RDCongo e il Ruanda, si sta usando il GPS (Global Positioning System), che permette agli esperti di individuare e identificare i 22 vecchi terminali, eretti dai colonizzatori nel 1911.[23]

Il 2 maggio, gli esperti ruandesi e congolesi hanno finito di individuare le posizioni dei 22 cippi che marcano la frontiera come delimitata nel 1911 dai colonizzatori belgi e tedeschi. La prossima tappa sarà quella di ricostruire i 22 cippi che separano il Ruanda dalla Repubblica Democratica del Congo su un tracciato di circa 30 chilometri, dalla città di Goma fino al monte Ehu.

Secondo gli esperti, non ci sarà alcuna perdita di territorio da parte dei due Paesi, ma solo degli aggiustamenti. Nella posizione del secondo cippo, per esempio, c’è una casa ruandese.  Nelle posizioni dei cippi 3, 4, 5 e 6 ci sono delle case congolesi.

L’idea sarebbe quella di ricreare una zona neutra di 12 metri tra i due paesi. Si dovranno quindi demolire queste case e ricostruirle altrove? Tali modifiche saranno adottate nei prossimi giorni. Una volta approvate tali modifiche,  si dovranno ricostruire i 22 cippi terminali. Ma la parte più difficile resta quella di delimitare la frontiera lacustre, quella che attraversa il lago Kivu, particolarmente ricco di gas metano. Ma su questo, nessun calendario è ancora previsto.[24]

c. L’operazione di registrazione digitale dei rifugiati ruandesi

L’11 aprile, a Lubumbashi (Katanga), il governo congolese ha lanciato una campagna di sensibilizzazione e di registrazione biometrica dei rifugiati ruandesi. Condotta dall’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR), questa operazione di registrazione interessa più di 245.000 rifugiati ruandesi presenti nella RDCongo, di cui l’80% si trova nel Nord Kivu. Secondo questo organismo delle Nazioni Unite, i rifugiati interessati dall’operazione sono quelli che sono fuggiti dal Ruanda a partire dal 1994. Il Vice Primo Ministro e Ministro degli Interni, Evariste Boshab, ha affermato che «l’obiettivo di questa operazione è di conoscere il numero dei rifugiati ruandesi che vivono nella RDCongo, di sapere quanti sarebbero disposti a ritornare al loro Paese e di fornire loro i documenti necessari per evitare i casi di ritorni clandestini nella RDCongo e prevenire situazioni di apolidi nella regione dei Grandi Laghi». Quest’operazione di registrazione durerà un mese. Un’altra era stata condotta tra settembre 2013 e gennaio 2014, dalla Commissione Nazionale per i Rifugiati (CNR) con l’appoggio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), in altri territori del Katanga: Kalemie, Kabalo, Nyunzu, Manono e Kongolo.[25]

Il 7 maggio, la Commissione Nazionale per i Rifugiati (CNR) del Sud Kivu ha annunciato un’operazione di registrazione, nei giorni seguenti, dei rifugiati ruandesi che vivono a Fizi e a Uvira (Sud Kivu). Quest’operazione comporterà la registrazione biometrica dei rifugiati arrivati nella RDCongo tra il 1994 e il 1998 e sarà condotta da agenti della CNR accompagnati da quelli dell’UNHCR. Il responsabile della CNR del Sud Kivu, Gratien Mupenda, ha spiegato come si svolgerà tale operazione: «Il rifugiato fornirà le sue generalità e lascerà la sua impronta digitale. In tal modo potrà poi ottenere il certificato di rifugiato». Tale operazione sarà fatta anche nella città di Bukavu, negli altri territori del Sud Kivu e nel Maniema.[26]

3. RISORSE NATURALI

a. Il rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (PNUE)

Il governo congolese ha convalidato e qualificato come “verdi” 7 siti minerari di Walikale e 6 di Lubero, nel nord Kivu. Nel territorio di Masisi, 17 siti minerari artigianali erano già stati convalidati e qualificati nei primi mesi del 2014, il che porta a 30 il numero dei siti di cassiterite, coltan e wolframite convalidati e qualificati nel Nord Kivu.

Il ministro provinciale delle miniere del Nord Kivu, Jean Ruyange, ha tuttavia precisato che, in questi tre territori, ci sono ancora molti siti artigianali “classificati rossi”, trovandosi in zone ancora afflitte da conflitti armati. Inoltre, la miniera di cassiterite di Bisié, a Walikale, già dichiarata dal governo “sito riservato all’estrazione mineraria di tipo industriale” e la miniera di niobio di Lweshe, a Rutshuru, gestita industrialmente da Somikivu, non entrano in questa classificazione che riguarda solo i siti minerari artigianali.

Ricordando che «i minerali di Walikale non erano accettati sul mercato, perché si riteneva che fossero legati a dei conflitti armati», il deputato Juvenal Munubo ha accolto con soddisfazione la notizia sulla validazione di questi siti minerari di Walikale, convinto che ciò contribuirà a rilanciare le attività economiche sul territorio.[27]

Il 17 aprile, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (PNUE), con sede a Nairobi, ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che i miliardi di dollari ottenuti attraverso il contrabbando di avorio, oro e legname finanziano decine di gruppi armati nell’est della RDCongo e vi alimentano il perpetuarsi dei conflitti.

Secondo il rapporto, «dei gruppi criminali internazionali militarizzati sono implicati in un vasto traffico di minerali, oro, legname, carbone e avorio», con un giro di 1,3 miliardi di dollari all’anno.
Secondo il PNUE, questi fondi finanziano – secondo le varie stime – tra 25 e 49 gruppi armati, congolesi e stranieri, e «alimentano continui conflitti» in una regione in cui, da vent’anni, le successive ribellioni seminano terrore e caos tra la popolazione locale. Il commercio dell’oro costituisce una delle maggiori entrate illegali, pari a 120 milioni di dollari all’anno.
Il controllo delle zone più ricche di minerali (oro, stagno, coltan …) è uno degli elementi che alimentano l’instabilità cronica provocata dalle varie milizie attive nell’est della RDCongo, soprattutto nella Provincia Orientale, nel Nord Kivu, nel Sud Kivu e nel Katanga, province che sfuggono in gran parte al controllo dell’autorità dello Stato.

«Questi fondi captati dalle bande criminali (…) avrebbero potuto essere utilizzati per costruire scuole, strade, ospedali e per pagare insegnanti e medici», ha dichiarato Martin Kobler, il capo della missione del Nazioni Unite nella RDCongo (Monusco).

Secondo il PNUE, solo il 2% – cioè 13 milioni di euro – degli utili netti dei traffici vanno ai gruppi armati, sufficienti tuttavia per garantire «il mantenimento di base di circa 8.000 combattenti» e per «permettere a dei gruppi sconfitti o disarmati di riemergere e di destabilizzare la regione».
Secondo il rapporto, il resto del denaro generato finisce nelle tasche di “reti criminali transnazionali che operano dentro e fuori della RDCongo”, soprattutto nei paesi limitrofi (Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania), permettendo loro di mantenere la strategia del “dividere per regnare” e di fare in modo che nessun gruppo armato possa dominare sugli altri e controllare il traffico.

Il PNUE ha denunciato anche i vari tentativi di far declassare il parco dei Virunga, in vista dello sfruttamento del suo legname e del suo petrolio.

Ibrahim Thiaw, Vice Direttore esecutivo del PNUE, ha affermato che «la RDCongo è un Paese molto ricco di risorse naturali, ma si è constatato che gli Stati fragili e ricchi di risorse naturali sono cresciuti due o tre volte meno, rispetto ai paesi più poveri di risorse naturali. Pertanto, è come se l’abbondanza di risorse naturali sia diventata, in qualche modo, una disgrazia», precisando che «a livello internazionale, si è constatato che nel corso degli ultimi 50 anni, il 40% dei conflitti è legato all’accesso alle risorse naturali». Secondo lui, per porre fine in modo permanente ai conflitti, «nell’impegno per la pace, occorre includere anche la questione delle risorse naturali».[28]

b. Il rapporto di Amnesty International e Global Witness

Il 22 aprile, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani, Amnesty International, e l’ONG per la lotta contro il saccheggio delle risorse naturali dei paesi poveri, Global Witness, hanno pubblicato un rapporto secondo il quale quasi l’80% delle società quotate in borsa negli Stati Uniti non verificano correttamente se i loro prodotti contengono minerali provenienti da zone di conflitto dell’Africa centrale e non forniscono sufficienti informazioni a questo proposito.
Intitolato “Una miniera di trasparenza?”, lo studio delle due Ong analizza 100 rapporti presentati da società come Apple, Boeing e Tiffany & Co, secondo la normativa della sezione 1502 della legge Dodd-Frank o legge sui minerali provenienti da zone di conflitto.

La Sezione 1502 della legge Dodd-Frank ha come obiettivo quello di ridurre il rischio che gli acquisti di minerali nell’Africa Centrale non contribuiscano ad alimentare dei conflitti o delle violazioni dei diritti umani.

Secondo la sezione 1502 della legge Dodd-Frank, tutte le società quotate in borsa negli Stati Uniti e soggette a questa legge hanno l’obbligo di determinare se i loro prodotti che contengono certi minerali – stagno, tungsteno, tantalio e oro – contribuiscono ad alimentare il conflitto o delle violazioni dei diritti umani nella Repubblica Democratica del Congo e nei paesi vicini, e di rendere conto delle loro conclusioni.

La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è un importante Paese d’approvvigionamento in minerali – come l’oro, lo stagno, il tungsteno e il tantalio – per le imprese di tutto il mondo. Questi minerali sono essenziali per la produzione di dispositivi elettronici, come gli smartphone e i computer portatili. Da oltre 15 anni, i gruppi armati della RDC hanno scommesso sul settore minerario per finanziare le loro attività, con conseguenze devastanti, tra cui delle gravi violazioni dei diritti umani.

Nel 2014, secondo la normativa della legge Dodd-Frank, oltre mille (1.321) società quotate in borsa negli Stati Uniti e utilizzatrici di minerali provenienti dall’Africa centrale, hanno presentato un loro rapporto alla Securities and Exchange Commission (SEC), l’autorità di vigilanza sul mercato degli Stati Uniti. È stato il primo anno che avevano l’obbligo giuridico di presentare un tale rapporto. La seconda serie di rapporti è prevista per i primi di giugno 2015.

Le principali conclusioni del rapporto di Amnesty International e di Global Witness sono:

  • Tra le società di cui si sono analizzati i rapporti, il 79% non soddisfa i requisiti minimi della legge americana sui minerali provenienti da zone di conflitto.
  • La maggior parte delle aziende di questo campione non prendono misure sufficienti per identificare chiaramente la catena d’approvvigionamento dei minerali che acquistano. Solo il 16% non si sono limitate a contattare i loro fornitori diretti, ma hanno contattato, o tentato di contattare, le fonderie e raffinerie che trasformano i minerali che esse utilizzano.
  • Oltre la metà delle aziende esaminate nemmeno segnalano ai direttivi superiori della società i rischi che esse identificano nella loro catena d’approvvigionamento.

L’analisi di Global Witness e Amnesty International mostra anche che un’impresa su cinque ha rispettato gli obblighi della legge, il che fa cadere la tesi secondo cui la realizzazione del rapporto è troppo complicata e troppo costosa. Le società non hanno dunque alcuna scusa per non indagare correttamente sulle loro catene d’approvvigionamento.

«La legge sui minerali provenienti da zone di conflitto è una buona occasione per bonificare le catene d’approvvigionamento mondiali in minerali. Tuttavia, la nostra ricerca dimostra che la maggior parte delle aziende preferiscono continuare la loro attività come se nulla fosse, piuttosto che preoccuparsi del rischio che i loro acquisti di minerali finanzino gruppi armati all’estero», ha affermato Carly Oboth, consulente per le strategie di Global Witness.

«I consumatori vogliono sapere cosa si nasconde dietro i loghi. Le aziende sono sotto forte pressione: devono dimostrare che stanno facendo tutto il possibile, per assicurarsi che, dietro i prodotti che esse immettono sul mercato, non si nasconda alcuna terribile storia di conflitti o di violazioni dei diritti umani», ha ribadito James Lynch, capo del team Responsabilità delle aziende in materia di diritti umani di Amnesty International.

«Le aziende che fanno piena luce sulle loro catene d’approvvigionamento contribuiscono a prevenire il commercio illegale dei minerali che alimenta un devastante conflitto nell’Africa Centrale», ha egli aggiunto.

Il 18 maggio 2015, il Parlamento europeo voterà una legge europea sui minerali provenienti da zone di conflitto. Il testo finale della legge dovrebbe prevedere che tutte le aziende che, sul mercato europeo, commercializzano stagno, tungsteno, tantalio e oro o prodotti contenenti questi minerali, siano obbligate ad applicare il dovere di diligenza alle loro catene d’approvvigionamento e a rendere conto delle loro attività. Per ora, il testo proposto è debole. Solo 19 aziende (fonderie e raffinerie) sarebbero sottoposte a un obbligo di dimostrare l’origine dei loro minerali. Le altre aziende – produttori, commercianti e aziende che importano i prodotti contenenti questi minerali – sarebbero oggetto di un meccanismo di semplice auto-certificazione volontaria.

In occasione del voto in plenaria al Parlamento europeo tra il 18 e il 21 maggio, i deputati avranno l’opportunità unica di rafforzare il testo e di votare a favore di un regolamento che potrebbe obbligare tutte le società che immettono questi minerali sul mercato europeo (sotto qualsiasi forma) ad acquistare i minerali in modo responsabile e trasparente.[29]

[1] Cf Radio Okapi, 16.04.’15; AFP – Jeune Afrique, 16.04.’15

[2] Cf Radio Okapi, 19.04.’15

[3] Cf Radio Okapi, 24.04.’15

[4] Cf Radio Okapi, 28.04.’15

[5] Cf Radio Okapi, 30.04.’15

[6] Cf AFP – Africatime, 30.04.’15

[7] Cf Radio Okapi, 05.05.’15

[8] Cf Radio Okapi, 05.05.’15

[9] Cf RFI, 06.05.’15

[10] Cf RFI, 09.05.’15

[11] Cf Radio Okapi, 09.05.15

[12] Cf Radio Okapi, 12.05.’15

[13] Cf Radio Okapi, 14.05.’15

[14] Cf Radio Okapi, 09.04.’15

[15] Cf Angelo Mobateli – Le Potentiel – Kinshasa, 09.04.’15

[16] Cf Radio Okapi, 07.05.’15

[17] Cf James Akena / Reuters – RFI, 22.04.’15

[18] Cf 7sur7.cd – Goma, 24.04.’15

[19] Cf AFP – Africatime, 30.04.’15

[20] Cf Radio Okapi, 08.04.’15

[21] Cf Radio Okapi, 29 et 30.04.’15

[22] Cf RFI, 23.04.’15; Jeune Afrique, 23.04.’15

[23] Cf Radio Okapi, 30.04.’15

[24] Cf RFI, 03.05.’15

[25] Cf Radio Okapi, 12.04.’15

[26] Cf Radio Okapi, 07.05.’15

[27] Cf Radio Okapi, 08.04.’15

[28] Cf RFI, 20.04.’15; AFP – TV5, 17.04.’15: http://information.tv5monde.com/en-continu/rdc-les-trafics-de-ressources-naturelles-alimentent-les-conflits-selon-l-onu-28888

[29] Cf http://www.amnesty.fr/Nos-campagnes/Entreprises-et-droits-humains/Actualites/Minerais-en-provenance-de-zones-de-conflits-ces-entreprises-americaines-qui-refusent-la-transparence-14976 ;

https://www.globalwitness.org/campaigns/democratic-republic-congo/digging-transparency/